Francesco Grillo
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Le peggiori crisi sono quelle che si sprecano

di Francesco Grillo
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Giovedì 30 Aprile 2020, 00:20 - Ultimo aggiornamento: 18 Maggio, 14:51
Winston Churchill è sicuramente il leader più citato dai capi di governo che provano a gestire la più difficile crisi che l'Occidente abbia vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale. Pochi però ricordano che fu, soprattutto, il primo ministro inglese a pretendere che, prima ancora di aver vinto la Guerra, si cominciasse - a Teheran e poi a Jalta - a progettare un sistema economico e politico diverso da quello che aveva portato il mondo alla tragedia. «Le peggiori crisi - disse - sono quelle che si sprecano». 

Le crisi non sono, solo, momenti di grande paura e sofferenza. Sono, anche, il massimo acceleratore dell'innovazione e dell'adattamento di imprese, città, scuole ad un contesto che era già nuovo prima che la crisi cominciasse. Perderemmo un'opportunità storica e ci prepareremmo ad una crisi ancora più grave e definitiva, se, come già facemmo con quella finanziaria del 2007-2008, riuscissimo, ancora, a sprecare l'energia creativa di questa rottura.

Ci avvieremmo ad un crepuscolo senza ritorno, se prevalesse, di nuovo, l'illusione mediocre che ci sia ancora una normalità alla quale tornare; se gli Stati avessero solo la preoccupazione di iniettare liquidità nel sistema per far galleggiare chi sta affondando, se il governo e l'Unione Europea non si ponessero, subito, il problema di trovare strumenti per far crescere le idee che stanno già emergendo tra imprenditori, sindaci, volontari impegnati sul fronte di questa strana guerra.

In realtà, finora, la risposta che i governi occidentali hanno dato ad un'emergenza che sta distruggendo centinaia di migliaia di posti di lavoro, è stata quella di comprare tempo. Anche in Italia, i decreti quello finalizzato a curare l'economia e quello successivo concepito per darle liquidità sono, finora, intervenuti per dare respiro a tutti, senza fare distinzioni. È certamente questa la reazione più immediatamente necessaria. Tuttavia, ciò non basta: soprattutto, per un'economia come la nostra, che ha accumulato inefficienze e diseconomie che stanno venendo al pettine severo della crisi. 

Secondo uno studio del Think Tank Vision, che sta calcolando l'impatto della pandemia sul Prodotto Interno Lordo per settori, due terzi delle imprese italiane non reagirà alla fine delle restrizioni rimbalzando ai livelli di fatturato e occupazione dello scorso anno. Ciò ha, peraltro, forti implicazioni sulla forma che sta per assumere la recessione in Italia, compromettendo l'ipotesi che fa la stessa nota preliminare al documento di Economia e Finanza che ipotizza un recupero del Pil nel 2021.

Ci sono interi settori produttivi il turismo, innanzitutto, ma anche il commercio al dettaglio, i settori legati alla cucina, l'industria automobilistica, le filiere dell'energia e del petrolio che si troveranno a dover cambiare radicalmente prodotti, clienti, modelli organizzativi, canali di vendita. 

Gli esempi del turismo, della distribuzione e della ristorazione sono particolarmente interessanti perché raccontano di tessuti produttivi particolarmente granulari che si stanno confrontando con lo tsunami della distanza sociale. Ciò può spazzare via alcune offerte quelle, ad esempio, che erano letteralmente basate sul super affollamento di spiagge, centri commerciali e locali che erano, già, non adeguate ad un'economia che non volesse limitarsi a vivere di tradizioni. E, tuttavia, tra le macerie, si intravedono già opportunità nuove: approfittare della chiusura per preparare l'infrastruttura servizi, strade - per far riscoprire intere province e borghi abbandonati che sono una risorsa per un Paese come l'Italia che pigramente vi ha rinunciato per anni; i ristoranti dovranno cercare un patto nuovo con le amministrazioni comunali per occupare, in maniera equilibrata, spazi pubblici che dovranno ospitare forme nuove di mobilità; la grande e piccola distribuzione non potrà più rimandare il momento di confrontarsi con chi questa crisi la sta già vincendo Amazon, Alibaba e scoprire con astuzia ciò che alla grandi piattaforme globali manca.
Ma non meno straordinarie sono le opportunità per reinventare servizi pubblici, a partire dei trasporti che richiederanno investimenti di intelligenza in un momento di potenziale dissesto di buona parte delle amministrazioni locali. E immaginare modi nuovi per fare scuola e università, facendo leva su quell'enorme bacino di idee che gli stessi adolescenti possiedono. Va, letteralmente, scatenata la creatività che nei momenti più difficili i popoli riescono a trovare per sopravvivere. Forme di innovazione sociale possono far leva sullo spirito di comunità che la crisi ci sta facendo riscoprire per affiancare e, a volte, sostituire uno Stato che non può rispondere a tutti con un Dpcm.

Dai droni in grado di misurare la temperatura delle persone alle automobili a guida autonoma, dai pagamenti telefonici ai supermercati senza cassa: è imponente il potenziale delle tecnologie che, per anni, ci siamo limitati ad osservare e che un virus piombatoci addosso dalla notte dei tempi, ci costringe a rendere parte integrante delle nostre esistenze.

Quello che è, oggi, un fondo per la guarigione (il Recovery Fund europeo) dovrà, presto, essere reinterpretato come un grande piano per l'innovazione e l'adattamento dell'economia di un continente vecchio ad un secolo completamente nuovo. Non sarà uno Stato imprenditore a decidere da solo dove allocare risorse scarse perché ciò non è coerente con la consapevolezza di dover navigare nella complessità. Bisognerà immaginare strumenti che ad ogni euro speso facciano corrispondere la responsabilità di un amministratore e il rischio di chi beneficia dell'aiuto. 

Abbiamo, in fondo, solo una strada: costruire dalle macerie di un'economia che stava perdendo praticamente tutti i più importanti treni di innovazione, un modello di sviluppo nuovo, in grado di resistere agli choc e alla concorrenza delle potenze Stati Uniti, Cina che si stanno giocando la leadership del ventunesimo secolo. 
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