Coronavirus, gli studiosi: «Allarme falsi negativi nei tamponi»

Coronavirus, gli studiosi: «Allarme falsi negativi nei tamponi»
di Michela Allegri
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Sabato 4 Aprile 2020, 14:23 - Ultimo aggiornamento: 15:50

Nel pieno dell’emergenza coronavirus, scoppia il caso tamponi. Uno studio svolto dai ricercatori cinesi nella città di Wuhan ne mette in dubbio l’affidabilità. Il guaio è che l’analisi può restituire un risultato inattendibile a causa dei “falsi negativi”, situazioni nelle quali l’esito del test esclude il contagio, mentre invece il paziente ha il virus in circolo nell'organismo. Studiosi e clinici in tutto il mondo stanno cercando di comprendere la dimensione del fenomeno. Il problema di tutela della salute pubblica è delicatissimo: i soggetti cui viene riferita la negatività al tampone tendono a non prendere precauzioni, in molti casi tornano al lavoro, escono di casa. E, ignari di essere infetti, continuano a contagiare le persone intorno a loro.

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La questione ha suscitato la preoccupazione della comunità medica negli Stati Uniti. In diversi casi, i sanitari si sono trovati di fronte a pazienti con tamponi negativi, ma che presentavano i sintomi tipici della malattia da Covid-19, come impegno polmonare confermato dagli esami radiologici e febbre persistente. Il dottor Chris Smalley, della Norton Healthcare nel Kentucky, si è trovato a trattare diversi pazienti che presentavano negatività al test e ciononostante venivano ricoverati con quadri clinici anche gravi, tipicamente suggestivi della malattia da coronavirus. Il caso più eclatante è stato quello di Julie, la sedicenne francese deceduta pochi giorni fa a causa del coronavirus, una delle vittime più giovani al mondo. Solamente poche ora prima di aggravarsi fatalmente, Julie era stata sottoposta a due tamponi: entrambi avevano dato esito negativo.

L’attenzione si è quindi spostata sull’affidabilità dei test oro-faringei attualmente in uso. Si è scoperto uno studio cinese condotto in febbraio su mille pazienti e pubblicato sulla rivista scientifica “Radiology”, che ha dimostrato come il tampone restituisse un «falso negativo» in circa il 33% dei casi. In assenza di dati scientifici consolidati, o di studi su una platea più vasta, si va consolidando oltreoceano la convinzione che i test attualmente in uso per scoprire l’infezione da coronavirus abbiano una percentuale di affidabilità intorno al 70%, nettamente inferiore a quella che di solito ci si attende da queste procedure.

Tom Taylor, un professore già del dipartimento di statistica del CDC - Center for Disease Control, l’ente federale americano che si occupa della diffusione delle malattie, esprime preoccupazione per l’affidabilità dei tamponi attualmente in uso. Spiega come il processo alla base del test, che prende il nome di PCR – Polymerase chain reaction, normalmente restituisca una percentuale di affidabilità tranquillizzante, superiore al 90%. Nel caso del coronavirus, sarebbe invece molto più bassa. Per l’esperto, parte del problema sta nell’assenza di approfonditi percorsi di validazione scientifica dei test. In condizioni normali, il CDC condurrebbe estese prove per confermare l’affidabilità dei tamponi, prove che richiedono all’incirca un anno. Ma l’esplodere della pandemia ha reso impossibile seguire i percorsi canonici, con il risultato che produttori dei kit e laboratori di tutto il Paese stanno procedendo empiricamente e con poca supervisione da parte delle Autorità. Per Bill Miller, epidemiologo della Ohio State University, la situazione è fluida: i medici devono esercitare molta cautela nel prendere per buono un risultato negativo del tampone.

Il dibattito risuona anche in Italia, ed è particolarmente utile rispetto alla decisione, che alcune Regioni starebbero valutando, di sottoporre a test estese fasce della popolazione, secondo la strategia dei “tamponi a tappeto”. Se però l’affidabilità dell’esame non va oltre il 66%, l’intera operazione diventa poco utile, come fa notare il dottor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive del San Martino di Genova. Anche per questi motivi, l’Istituto Superiore di Sanità sta valutando l’ipotesi di svolgere invece i test sierologici, che non ricercano il virus all’interno del corpo del paziente, ma la risposta immunitaria al microorganismo. Il direttore Silvio Brusaferro ha infatti dichiarato che l’Istituto sta lavorando nella direzione di un’indagine di prevalenza sierologica.

Anche sull’onda del caso della sedicenne Julie, i medici francesi invitano alla cautela nell’interpretare i risultati negativi al tampone oro-faringeo, che per di più, secondo il dottor Gerald Kierzek dell’ospedale Hotèl-Dieu di Parigi, sarebbe anche «operatore-dipendente». Vale a dire che il risultato potrebbe venire fuorviato a seconda di come viene raccolto il campione di materiale biologico del paziente. Il tema, insomma, resta d’attualità.

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