Cambia il potere/ La sovranità è il controllo di tutti i dati

di Giuliano da Empoli
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Venerdì 3 Aprile 2020, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 11:23
Si fa presto a invocare il «ritorno dello Stato» di fronte al coronavirus, ma quale Stato? È chiaro che la crisi in corso riporta alla luce la funzione di protezione che sta all’origine di qualsiasi organizzazione statale. È chiaro che medici e infermieri sono in prima linea.

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E sono in prima linea in quella che i alcuni leader novecenteschi si ostinano a definire come una guerra, per provare l’ebbrezza di indossare i panni di Churchill o di De Gaulle. Ma il problema è che l’Europa sta combattendo questa guerra con le armi della precedente. Rispetto a Singapore, Taiwan o la Corea del Sud, stati come l’Italia, la Francia o il Regno Unito assumono oggi le sembianze di apparati del medioevo. 

Costretti a chiedere ai loro cittadini di rintanarsi in casa come si faceva all’epoca delle pestilenze del XIV secolo, mentre le democrazie asiatiche affrontano il virus con le armi della tecnologia: le mascherine ad alta protezione, i test di massa, il contact tracing. Come l’ha scritto il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, l’Europa che proclama lo stato d’emergenza e chiude le frontiere segue un vecchio modello di sovranità. Sovrano, oggi, è chi dispone dei dati. E i nostri sovrani non dispongono dei dati perché non dispongono dei test. Quindi non sono veri sovrani, bensì impotenti, costretti a risfoderare poteri di altri tempi per recuperare una parvenza di controllo sulla situazione. 

Constatare questo ritardo non significa necessariamente auspicare le misure invasive della privacy che sono state adottate in alcuni paesi asiatici, dove la posizione degli infettati viene tracciata via cellulare e resa pubblica in ogni momento. Ma, al di là del fatto che nessuna misura viola la libertà individuale più della quarantena alla quale siamo attualmente sottoposti, sta a noi elaborare un modello diverso, più rispettoso dei valori sui quali sono costruite le nostre società. Per poterlo fare, però, dobbiamo prima colmare il nostro ritardo, che non è solo tecnologico, ma soprattutto di visione e di previsione. Altrimenti si cade nella tragicommedia di quei governi che hanno denunciato a gran voce l’inutilità delle mascherine e dei test semplicemente perché non ne disponevano.

Insieme a molte altre cose, la crisi globale del Coronavirus è una macchina per mettere a confronto leader politici e apparati statali. E se i governanti europei possono ancora contare sull’eredità dei sistemi di welfare che sono stati creati nel secolo scorso, non si può dire che abbiano brillato né per capacità di leadership (qui la palma va a Jacinda Ardern, la premier della Nuova Zelanda che ha chiuso il paese con largo anticipo, senza isterie e senza metafore guerriere), né per preparazione tecnico-scientifica, né per coerenza, visto il balletto di dichiarazioni e di misure contraddittorie al quale si sono consacrati nel corso delle ultime settimane. 

Senza neppure evocare lo spirito europeo, sul quale è meglio stendere un velo pietoso. In una situazione del genere, le metafore guerriere sono un autogol. Se il Coronavirus fosse una guerra, ci toccherebbe ammettere che l’Europa è stata sorpresa da una guerra-lampo rispetto alla quale i generali erano impreparati e divisi. Quando le misure di quarantena avranno prodotto il loro effetto sulla diffusione del virus, il nostro compito sarà di ricostruire dopo la sconfitta. E il primo requisito per farlo sarà una salutare dose di umiltà.
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