Coronavirus, il medico italiano in trincea in Kenya: «Niente acqua in ospedale e due pazienti per ogni letto»

Il medico italiano in trincea in Kenya: «Niente acqua in ospedale e due pazienti per ogni letto»
di Giuseppe Scarpa
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Mercoledì 1 Aprile 2020, 09:30 - Ultimo aggiornamento: 13:14

Si vive e si muore in modo diverso in Africa. Differente rispetto al resto del mondo. Ancora di più al tempo del coronavirus. Senza disonore e senza versare cascate di lacrime. I numeri ufficiali non rappresentano (per ora) una catastrofe, 4.276 positivi. E non certo perché si voglia nascondere dei dati reali. Niente realpolitik. Semplicemente di tamponi qui se ne fanno pochissimi, perché di pochi se ne dispone. Perciò quando Daniele Sciuto, medico italiano di 44 anni, assunto dal 2016 in un ospedale pubblico keniota dice che “nella mia struttura non esiste la terapia intensiva, non abbiamo ossigeno, nessun tipo di sostegno respiratorio, spesso manca pure l’acqua, non abbiamo più le mascherine e speriamo che da Nairobi ce le mandino”, si rimane disorientati.

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Parla al telefono a 9.130 chilometri di distanza da Roma. È chiaro che il coronavirus si abbatterà come una tempesta sul continente. In confronto in Occidente – che pure soffre tantissimo la pandemia – sarà una pioggerellina. Ma tutto, appunto, è rovesciato. In Europa la maggior parte dei casi gravi finirà nelle “intensive care unit”. In Africa sarà un privilegio ad appannaggio di una minoranza. Bisogna prenderne atto: “Quel 10% di ammalati che avranno crisi respiratorie – sottolinea il medico italiano – moriranno”. Punto.

Sciuto racconta anzitutto la sua realtà. Quella del Samburu County Referral Hospital, nella contea di Samburu, regione arida a nord del Paese, con cinque medici e 60 infermieri che servono una popolazione di 400mila persone e con 120 posti letto “che diventano 200 quando ne mettiamo due in un letto, testa-piedi, capisci? E quindi come l’affronti la diffusione di un virus?”, si domanda pensieroso il dottore. Questo è uno spicchio di Kenya che fotografa nel complesso la zona subsahariana. Ed ecco un’altra istantanea: l’attesa angosciosa dell’arrivo del nubifragio. E sul fatto che ci sarà una pioggia di contagi senza l’ombrello protettivo di un sistema sanitario, ormai, è fin troppo evidente.

“Cerco, comunque, di capire come fare a fronteggiare l’emergenza”, ammette determinato il medico. Nel frattempo l’ansia monta. Non c’è villaggio in cui non sia presente un keniota che stringa tra le mani uno smartphone: “Non è mai esistita una comunicazione massiva come con questa pandemia. Questo – racconta Sciuto - ha creato allarmismo e ha provocato due condizioni”. La prima, “la ragazza di un villaggio aveva la febbre. L’hanno obbligata a venire da noi. Lei si è rifiutata e, come risultato, ha deciso di suicidarsi. Si è buttata in un fiume, e non sapeva nuotare. Aveva 35 anni e alla fine solo una tonsillite”. La seconda: “Di solito assistiamo numerose persone che si fratturano. Qui è comune. Da due settimane non vedo nessuno. Non perché non si verifichino più dei traumi, ma perché hanno il terrore di venire in ospedale, sono convinti di prendersi il Covid - 19. Questo significa che avremo numerose persone con disabilità determinate da fratture non curate”.

Accade anche questo in Kenya. Uno dei paesi più attrezzati della regione ad affrontare la crisi. Nel complesso il Paese vanta “150 terapie intensive, che nel caso serviranno soprattutto le élite”, spiega Andrea Bollini, 41 anni, liaison officer di Amref, nella sede storica dell’ong a Nairobi. Dove questa associazione, che come scopo ha quello di migliorare la salute in Africa, è nata nel lontano 1957. Altri Paesi, come il Senegal, hanno “50 posti letto di terapia intensiva, 38 la Tanzania, 45 lo Zambia e - i dati sono di Amref - 34 il Malawi”. Bollini mette a fuoco il secondo grande problema per arginare la diffusione del Covid-19, l’economia del Kenya.

“Il concetto chiave è: 4 su 5 vivono di lavoro informale e dicono "preferisco il virus ma avere la pancia piena". Il governo poi ha varato da due giorni il coprifuoco dalle 7 di sera alle 5 di mattino”. È una misura di controllo sociale, non sanitaria. Da non confondere con “la quarantena nazionale” che si sta adottando in Italia. “Temono che dagli slum inizino ad assaltare i supermercati. In Europa stiamo a casa e tutto sommato ci sono dei meccanismi sociali che reggono – sottolinea Bollini - Qui no, se non per il 15% della popolazione. Il resto campa di lavoretti, chi vende pannocchie, chi guida taxi. Nelle zone rurali si vive di pastorizia e agricoltura”.

Poi il liaison officer di Amref affronta un altro problema. “Dicono che in Africa il virus sarà meno violento perché la popolazione è giovane. Ho i miei dubbi. Il 6% in Kenya ha l’hiv (in gran parte giovani) quindi immunodepressi. Senza contare chi ha la tubercolosi, polmoniti e ogni tanto il colera”. “In qualche modo riusciremo”, spiega deciso Sciuto. Al suo fianco la moglie, Yasmin Genovese, 33 anni, stringe tra le braccia la loro creatura, 18 mesi. “Il primo bambino bianco nato al Samburu County Referral Hospital. E l’ho fatto nascere io”, sottolinea con soddisfazione. E già l’ostetrica dell’ospedale non poteva. La moglie era impegnata a darlo alla luce.

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