Coronavirus, la cura Mario Draghi unica garanzia per la ripartenza

Sostegni all'economia/ La cura Draghi unica garanzia per la ripartenza
di Lorenzo Pecchi e Andrea Ripa di Meana
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Martedì 31 Marzo 2020, 00:19 - Ultimo aggiornamento: 08:57

Lo shock economico generato dalla pandemia è molto diverso da una guerra o dalla crisi finanziaria del 2008. La politica economica in preparazione per ridurne gli effetti negativi deve rifletterne il carattere. Il consenso è unanime sul fatto che le risorse pubbliche necessarie siano enormi.

Con conseguenti incrementi del debito pubblico nell'ordine di molti punti percentuali di Pil.
Invece le opinioni divergono sia sugli impieghi che sulle fonti di queste risorse. Sui modi di impiegare le risorse statali, si delineano due soluzioni: trasferimenti diretti a imprese e persone fisiche, oppure garanzie statali su nuovi finanziamenti bancari. Quanto alle fonti da cui reperirle, è risorta la perenne contesa sugli eurobond, se siano indispensabili o più convenienti dell'accesso diretto al mercato da parte della Repubblica. 

Secondo noi, la natura della crisi richiede trasferimenti diretti a imprese e famiglie, da finanziare con un ampliamento nell'ordine del 20-25% del programma annuale di emissioni di titoli di Stato, mentre le garanzie sarebbero di difficile applicazione e gli eurobond rimangono un obiettivo confinato nel futuro. 

La odierna sospensione dell'attività produttiva avrà una durata incerta, ma comunque misurabile in alcuni mesi. Se fossimo all'inizio di una delle due guerre mondiali del 900, la durata della crisi sarebbe incerta, ma misurata in anni; e alla fine della guerra, ci troveremmo a fronteggiare una profonda crisi istituzionale e una inflazione elevatissima. Invece lo shock del 2008, endogeno e strutturale, è partito dal settore finanziario e si è trasformato in una grave recessione economica durata anni, che ha danneggiato i bilanci delle famiglie, delle imprese e degli Stati. 

Concentriamoci sull'impiego delle risorse pubbliche di sostegno. Imprenditori e liberi professionisti stanno subendo una forte caduta dei redditi. Il problema è di evitare che questo improvviso sbilanciamento economico si trasferisca sui bilanci delle aziende, indebolendone il patrimonio e costringendole a fronteggiare la improvvisa carenza di cassa con un aumento dell'indebitamento bancario. Ma questo è esattamente quanto avverrebbe in assenza di un sostegno pubblico che, dunque, dovrà essere somministrato in tempi brevissimi. I mesi della ripresa dopo lo shock saranno di ripristino della normale operatività aziendale e di ricostituzione dei flussi di cassa operativa a livelli normali. Visto che la crisi è mondiale, non è escluso che l'attività economica interna dei Paesi si riprenderà, ciascuna con i tempi del recupero sanitario, in anticipo rispetto ai flussi di import-export del commercio internazionale. Saranno i consumi interni a trainare la ripresa. Anche per questo motivo, è verosimile che il ritorno degli investimenti industriali avverrà solo gradualmente. Combinando questi elementi, si comprende che le imprese avranno ben altro da fare che andare in banca a contrarre nuovi debiti. Lo faranno solo se costrette dalla stretta sulla liquidità. Quindi congegnare il sostegno in forma di garanzie pubbliche a costo zero sui prestiti sarebbe la soluzione meno favorevole per le imprese, che non hanno alcun desiderio di indebitarsi per far fronte alle spese correnti. 
Il Fondo Centrale di Garanzia per le Pmi interviene a garanzia di finanziamenti per investimenti erogati da banche e altri intermediari finanziari. Moltiplicare la dotazione del Fondo, aumentare le percentuali di garanzia o ridurre le soglie dei test di accesso sono modi utili per ampliarne il raggio di applicazione in generale; ma non sono quello che serve nella crisi odierna, perché sarebbe in forte dubbio il grande aumento della domanda di nuovi prestiti, ossia il presupposto del grande aumento dell'offerta di garanzie addizionali. Gli artigiani, le partite Iva, le piccole e medie imprese che stanno vedendo sparire i loro fatturati hanno la necessità di pagare subito gli stipendi dei loro dipendenti, gli affitti e le rate dei mutui. Congegnare il supporto pubblico attraverso forme di garanzie eccezionali al sistema bancario introdurrebbe vari spinosi problemi. 
In primo luogo ricadrebbe sulle banche l'onere di accertarsi che chi si presenta in banca per richiedere un nuovo prestito garantito abbia davvero sofferto la crisi e che l'importo richiesto sia circa congruente con il danno economico subìto, rendendo la procedura complessa e burocratica. In secondo luogo lo Stato, divenuto creditore dell'azienda a seguito dell'escussione delle garanzie, dovrebbe scegliere se recuperare il credito, a che condizioni e in che tempi, sino a giungere alla nazionalizzazione dell'impresa insolvente, oppure se condonarlo. Visto che l'intero meccanismo va congegnato sotto la pressione del tempo, il rischio di errori irrimediabili di impostazione sarebbe elevato. 
In questa forma, le garanzie statali su nuovi finanziamenti di emergenza alle banche sarebbero uno strumento di ardua applicazione e soprattutto di scarsa appetibilità per le aziende. A meno di non rendere noto che ogni debito garantito sarà condonato con certezza, le imprese stesse sarebbero riluttanti a contrarre nuovi debiti bancari. Ma con garanzie al 100% e condono assicurato, sempre che sia giuridicamente possibile, il meccanismo diventa un parente stretto di un trasferimento monetario diretto alla persona fisica o giuridica.

Quindi la recente indicazione del professor Draghi di congegnare il sostegno pubblico in forma di trasferimenti diretti a fondo perduto pare di gran lunga più utile, pur se anch'essa presenta alcune difficoltà da risolvere, ovvero come individuare in modo decentemente preciso i destinatari più bisognosi. 

Passando alle fonti della politica di sostegno, a prima vista l'importo da procurarsi di circa 100 miliardi sembra così elevato da richiedere strumenti eccezionali. Forse è per questo che impazza di nuovo la discussione sugli eurobond, che sembrano quasi un sine qua non per intraprendere la politica di sostegno italiana. Una seconda fonte di finanziamento europeo sarebbe il MES, ma i partiti dell'intero arco costituzionale hanno stabilito che il meccanismo della condizionalità imposta ai Paesi che se ne servono costituisca una trappola così infida da rendere inutile anche un negoziato volto a ridurla al minimo. 
Se avesse una capacità impositiva autonoma, la Eu potrebbe emettere eurobond perché avrebbe una fonte di rimborso, come ricordava Bini Smaghi giorni fa. Visto che chissà per quanto tempo non la avrà, gli eurobond potrebbero essere emessi solo ad una condizione, imprescindibile per avere un rating pari a quello tedesco: che tutti i Paesi Eu ne sostenessero le emissioni con garanzie solidali e illimitate sull'intero importo emesso. Sono proprio quelle garanzie che la Germania e gli altri paesi del Nord non hanno mai voluto concedere, perché in caso di futuri default dei paesi più fragili gli oneri ricadrebbero su di loro. E' sorprendente? La solidarietà europea oggi esiste solo se i benefici sono comuni, non se comportano trasferimenti netti tra Paesi. E questo, piaccia o no, durerà ancora per molto. Dal che non deriva affatto che si debba affossare il progetto Europeo, come molti insinuano. L'Unione Europea e l'Unione Monetaria oggi rappresentano un forte scudo per le economie più fragili come l'Italia. Un'uscita dall'Unione comporterebbe una svalutazione senza precedenti e la distruzione del risparmio di milioni di cittadini. 
Il no agli eurobond affossa la politica italiana di contrasto alla crisi? Facciamo un po' di conti. Lo Stato italiano dovrà aumentare il proprio programma di emissioni, diciamo per 100 miliardi che potrebbe creare tensioni nel mercato dei titoli di stato. Ma è qui che entra in campo il recentissimo programma di acquisto titoli della Bce che dovrebbe portare una nuova domanda di titoli italiani per circa 150 miliardi. L'azione della Bce dovrebbe essere sufficiente a mitigare le tensioni create sul mercato dei titoli di Stato. 

Ultima annotazione. Nel dimensionare la politica di trasferimenti anti-crisi, non dobbiamo agire come se non ci fosse un domani. L'epidemia finirà e ci ritroveremo con il nostro caro macigno il debito pubblico diventato ancora più grande. E visto che non saremo usciti da una guerra, non ci sarà una iperinflazione a risolvere il problema abbattendo il valore del debito. Quindi va benissimo varare una politica di forte contro-shock economico-finanziario, ma non dobbiamo scordarci il futuro per non essere costretti a demolire i bilanci delle famiglie e delle aziende, che oggi vogliamo salvare, con misure altrettanto straordinarie. 
 

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