Vittorio Parsi
​Vittorio Parsi

Caso von der Leyen/ L’Europa alla tedesca fallisce i test di solidarietà

di ​Vittorio Parsi
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Lunedì 30 Marzo 2020, 00:02
«Cara Italia, cari italiani, non vi lasceremo soli…» era l’incipit del discorso tenuto nella nostra lingua dal Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen appena pochi giorni fa. Sabato von der Leyen ha però completato il suo pensiero: «Vi venderemo la corda con la quale dovrete impiccarvi», per parafrasare Marx. 

Già, perché l’alternativa tra il varo degli eurobond (o “coronabond”) e il ricorso al Meccanismo di stabilità europea è tutta qui. Con il primo si apre la possibilità che l’Unione Europea, ovvero gli Stati che la compongono, si comportino in maniera effettivamente solidale, mettendo insieme il loro peso economico, finanziario e politico per consentire agli Stati più colpiti dalla pandemia, alla trincea che in prima linea combatte contro il virus per salvare tutta l’Europa, di indebitarsi senza la paura di essere poi strangolati. 

In questo caso si potrebbe davvero dire che l’Unione fa la forza. Nel secondo caso, l’Unione e gli Stati europei concedono a chi accede al Mes la possibilità di indebitarsi in cambio di garanzie così pesanti e stringenti che renderanno poi quell’indebitamento supplementare, ora così necessario, una pietra tombale sull’economia del Paese che vi ricorre.

Altro che “piano Marshall” per l’Europa. Il precedente cui il Mes rimanda semmai è quello delle riparazioni postbelliche imposte nel 1919 e nel 1946 alla Germania, per le sue responsabilità nell’aver scatenato due catastrofiche guerre mondiali, e poi sempre generosamente e giustamente sforbiciate per opportunità politica e per la forza degli eventi. È particolarmente singolare che von der Leyen, che la storia del suo Paese dovrebbe conoscerla, non ne colga l’intrinseca similitudine.

Si riponevano in lei molte speranze, anche per la sua relativamente giovane età e per essere nella posizione di apertura di un mandato durante il quale l’Unione o dimostrerà di esserci quando, dove e come serve, oppure potrebbe cessare di esistere, travolta dalla sua inadeguatezza. Invece la Presidente si rivela essere un mero satellite di Angela Merkel, la sua proxy: e del resto proprio per tale contiguità di pensiero e azione venne candidata. Von der Leyen ha poi parzialmente ritrattato, ma intanto aveva attirato su di sé e sulla Commissione parte del fuoco diretto su Merkel e sulla Germania. Peccato che lei dovrebbe tutelare l’Unione, e non la Germania.

Quando la crisi del covid-19 decollò, tutti quelli che non erano alla ricerca di un pretesto per accusare l’Unione di qualunque mancanza, obiettarono giustamente che la politica sanitaria non era competenza della Ue. Ma la politica finanziaria vi rientra in pieno, insieme alla gran parte delle decisioni che condizionano le politiche economiche dei singoli Stati, al punto che la Commissione è il principale interlocutore dei Ministri dell’economia e della finanza di ogni Stato-membro, in particolare nella zona euro. E allora il modo in cui usciremo dalla crisi economica che il covid-19 già sta determinando, se andremo incontro solo a una recessione o invece a una depressione peggiore di quella seguita al 1929, dipende eccome dagli strumenti cui potremo accedere per risalire la china e, magari, per non precipitare troppo in fondo.

Di fronte a uno shock esogeno e simmetrico, il dovere di una comunità politica è prestare aiuto immediato e totale ai suoi membri per salvare il tessuto produttivo e l’occupazione: cioè, in ultima analisi l’ordine sociale e le istituzioni politiche democratiche. Per riuscirci, risolutezza, tempestività e visione sono determinanti, lo ricordava Mario Draghi nel suo articolo per il Financial Times. Personalmente non ho mai amato l’eccesso di metafore belliche, per non perdere il senso della tragicità assoluta della guerra (quel tempo in cui “i padri seppelliscono i figli”, per riprendere Erodoto). E anche perché la pandemia, di per sé, strappa vite umane e avvelena il clima sociale, ma non produce rovine fisiche. Il modo in cui viene consentito o impedito ai governi di far fronte alle gravi conseguenze economiche della pandemia, quello sì che può generare macerie.

Ieri sulle colonne del Messaggero il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, paventava «ingerenze nello spazio europeo … da parte di potenze straniere». Non credo che metterci nelle condizioni per cui la Germania o l’Olanda rilevino a prezzi fallimentari quel che resterà dei nostri asset produttivi farebbe per noi una grande differenza. È vero che più fossimo uniti più saremmo forti. Ma uniti non può voler dire sottomessi. Ormai le critiche, gli ammonimenti, vengono da chi ha sempre considerato positivamente il progetto europeo (il Presidente Mattarella, Romano Prodi, Mario Draghi).

L’Unione non può pensare di avere un futuro dopo aver fallito in un decennio il test della solidarietà di fronte a tre crisi che hanno colpito tutta l’Europa: quella finanziaria, quella migratoria e quella del covid-19. Tutti noi abbiamo bisogno di più unione, ma non un’Unione così, schiava della nuova gerarchia di potenza al suo interno; abbiamo bisogno di leadership e non di supremazia; abbiamo bisogno di visioni audaci e prospettiche e non di meschini pregiudizi. Abbiamo bisogno che l’Unione Europea pensi e agisca in modo differente per poter fare davvero la differenza.
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