Il coraggio delle "ragazze" coi capelli bianchi chiuse nelle residenze:
«Noi abbiamo fatto la guerra, voi state a casa»

Il coraggio delle "ragazze" coi capelli bianchi chiuse nelle residenze: «Noi abbiamo fatto la guerra, voi state a casa»
di Vanna Ugolini e Nicoletta Gigli
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Mercoledì 25 Marzo 2020, 09:00 - Ultimo aggiornamento: 12:18

«Ne ho passate un bel po' ma ringrazio Dio di quello che ho avuto. Un marito onesto, buono, che mi ha voluto tanto bene, che era la mia roccia. Mi sentivo sicura vicino a lui. Ho un figlio e due nipoti che adoro e che sento accanto anche da lontano. E poi ci sono le nostre animatrici, molto premurose, che ci hanno ricordato che ci sono state mamme che non hanno più visto i propri figli partiti per la guerra. E che noi in fondo siamo fortunati, perché possiamo sentirli tutti i giorni. Io sono serena, voi restate a casa».  Egilda Ceccarani ha 85 anni e vive in una residenza protetta in provincia di Terni. Da due settimane le visite dei familiari sono bloccate, per paura del contagio e gli anziani possono solo sentirli per telefono o tablet e non escono più. Come fiori rari, chiusi in una serra, fragili ma non ancora piegati.


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Dietro le porte chiuse delle residenza, delle loro case che non frequentiamo più per paura di far loro del male, gli anziani, invece, trovano il modo di darci coraggio.  Sono la generazione che il coronavirus sta portando via ma anche quelli che riescono a rimettersi, forse per l'ultima volta, in gioco: dalle loro stanze si affacciano agli schermi dei cellullari e  trovano le parole giuste per darci la forza di andare avanti. Quelli che sorridono dai pc, che imparano a usare a muovere le dita ricurve sulla superficie del tabet per vedere sorridere i nipoti. Tornano a essere le nostre radici e la nostra bussola.

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«Sono serena. Bisogna avere fede, speranza, sennò non si va avanti. Guai ad avvilirsi. Mio figlio, che fa il medico a Castel Giorgio, e i miei nipoti, non posso vederli, ma ci sentiamo al telefono più volte al giorno. So che mi vogliono bene ed è solo questo che conta», prosegue Egilda, che per tanti anni ha insegnato matematica alle elementari, è una donna che ha affrontato tante difficoltà sin da bambina:  «In questi momenti ripenso a mia nonna, maestra elementare a Papigno e San Pietro, che mi raccontava di quelle madri che durante la guerra andavano da lei per farsi scrivere le lettere da spedire ai figli lontani». Egilda fa un appello a chi soffre per la lontananza dei parenti e per la reclusione forzata: «Restate a casa. La gioia di stare insieme non si raggiunge solo con la vista, è col cuore che devi essere vicino a chi vuoi bene. Ho visto morire mio marito che ho amato tanto, non lo vedo ma lo sento vicino a me. Come mia nonna, è come se la vedessi ancora qui. Chi ami continua a vivere dentro di te e non sarai mai sola».

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Ogni casa di riposo racchiude decine di storie come quella di Egilda. C'è Giulia che sorride ai figli dal tablet e li rincuora: forse a 96 anni mai avrebbe pensato di poter fare una festa di compleanno via skype. E' lei a fare forza ai figli e ai nipoti che non hanno potuto passare il giorno del compleanno insieme. 
E i volontari della comunità di Sant'Egidio raccontano di altre storie di anziani che resistono, che combattono la solitudine e vanno avanti. Maria Grazia è andata a dare una mano alla signora Settimia. «Ho lasciato la spesa sulla maniglia della porta, dove la signora Settimia, una cittadina modello che fa la differenziata a regola d’arte, ha lasciato le chiavi dei cassonetti ed ho portato via i tre sacchi grandi che lei non riusciva a portare. Quando sono risalita aveva ritirato la spesa ed i farmaci e mi aveva lasciato in bustina di nylon rossa i soldi. Non vedrò mai il suo volto e neppure lei il mio. Sono andata via e lei, da dietro la porta mi ha dato mille benedizioni. E' stata lei a fare coraggio a me. Porto con me il suono gentile della sua voce, i suoi ringraziamenti, ho la sua tenerezza e questa bustina dove mi ha messo i soldi per la spesa fatta».
E, a volte, ci riscopriamo noi così fragili davanti alla paura di perderli, all'angoscia di non aver dato loro l'ultimo sorriso, di non aver confessato, per pudore, tutto il nostro amore per loro. Pochi giorni fa è comparsa su un giornale locale la lettera di una figlia che ha raccontato il suo dolore: «Mia madre è malata ed è ricoverata in una casa protetta. Non può parlare, io non posso andare a trovarla. Questo virus forse ci dividerà per sempre, senza aver avuto il tempo di dirci addio».

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