Guerre, stragi e apartheid: da sempre le Olimpiadi come "Risorgimento" dello sport

Guerre, stragi e apartheid: da sempre le Olimpiadi come "Risorgimento" dello sport
di Piero Mei
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Mercoledì 25 Marzo 2020, 09:36 - Ultimo aggiornamento: 15:01
Il ragazzo che salì sorridendo la lunga scala che dalla pista di atletica portava al braciere nello Stadio Olimpico di Tokyo, il 10 ottobre 1964, era uno degli “hibakusha”, come venivano indicati i sopravvissuti di Hiroshima: si chiamava Yoshinori Sakai, era nato esattamente il 6 agosto 1945, qualche minuto dopo che la bomba atomica aveva spazzato via la città giapponese e la vita della maggior parte dei suoi abitanti. Era una scelta simbolica, quella fatta dagli organizzatori nipponici: voleva sottolineare la rinascita dell’Impero del Sol Levante e non piacque agli americani, che protestarono non poco presso il Cio. Gli americani, del resto, hanno sempre avuto una predisposizione politica per il tentativo di utilizzare i Giochi Olimpici ai propri scopi, anche elettorali: i Giochi e la Casa Bianca si disputano ogni quattro anni, e il millesimo coincide. Yoshinori era vestito di bianco, dalla canottiera alle scarpe, e sapeva che stava portando via la “maledizione di Tokyo”, credeva per sempre ma così non fu. Perché quelle del ’64 erano le Olimpiadi assegnate alla capitale giapponese dopo la “non disputa” di quelle del 1940 che erano state assegnate alla capitale giapponese. Non si erano tenute, causa la guerra. Non la Seconda Guerra Mondiale, bensì il conflitto fra Cina e Giappone che era scoppiato nel 1938 e che aveva portato alla rinuncia nipponica. Non alla “cancellazione”, perché i Giochi Olimpici moderni, quelli rinati il 6 aprile 1896 ad Atene, non sono mai stati ufficialmente cancellati. La dicitura ufficiale è sempre rimasta “non disputate”, sia che riguardasse Berlino 1916, Tokyo 1940 o Londra 1944. 

NUMERI ROMANI
Le tre edizioni di guerra hanno però conservato nella numerazione fatta in numeri romani, rispettivamente di VI, XII e XIII Olimpiade. La XXXII edizione, quella di Tokyo 2020, resterà tale e quale: numero XXXII e logo Tokyo 2020, anche se per la prima volta sarà un’Olimpiade “rinviata”, e disputata in un anno dispari contrariamente all’usuale anno bisestile. La conservazione della data sul logo ha la sua importanza simbolica, ma anche, a voler mal pensare, il suo effetto sul merchandising. Se il “rinvio” è un assoluto inedito nel secolo e un quarto del Rinascimento Olimpico prefigurato a fine Ottocento da quel visionario che fu il barone de Coubertin, i “guai olimpici sono spesso stati in calendario. Non solo le due guerre, mondiali e no, che le impedirono quelle tre volte, pure se non riuscirono a cancellarle, anzi il contrario: Anversa 1920, la prima edizione dopo la Grande Guerra rappresentò alla perfezione la voglia di riaversi del mondo intero, dopo la strage bellica e quella dell’”influenza spagnola”, scegliendo opportunamente la città belga, martire del conflitto; Londra 1948 fu la plastica dimostrazione di altrettanta voglia di tornare al mondo, pure fra le austerità delle tessere annonarie cui si uniformarono anche gli atleti, che vennero alloggiati in caserme ormai liberate dalla folla dei soldati combattenti. I “guai” dopo si snodarono, nella sequenza dei Giochi, seguendo movimenti e situazioni che affrontava l’umanità intera, proprio dopo Tokyo ’64. Si cominciò con Messico ’68, cioè Sessantotto: i Giochi iniziarono proprio dopo che i gendarmi messicani avevano fatto strage degli studenti nella Piazza delle Tre Culture, “the show must go on”. Lo show divenne anche il teatro mondiale della protesta sessantottina, quando Tommie Smith e John Carlos alzarono il pugno chiuso e abbassarono la testa all’inno americano: erano neri e testimoniavano contro i diritti negati agli afroamericani negli Stati Uniti. Le Olimpiadi superarono anche il terrorismo internazionale, a Monaco ’72 quando i palestinesi di Settembre Nero si introdussero nel Villaggio Olimpico ai tempi non ancora sigillato dalla sicurezza e venne il “massacro di Monaco”, strage di atleti israeliani e dei combattenti palestinesi. Un giorno di lutto, e poi i Giochi ripresero. Venne poi l’”èra dei boicottaggi”: da Montréal ’76 se ne andarono tutti gli africani, per protesta contro il Cio che non “cacciava” la Nuova Zelanda, rea di intrattenere relazioni sportive con il Sudafrica in pieno apartheid. Questa epoca sciagurata proseguì con la guerra fredda del “no olympics”. Gli americani non andarono a Mosca ’80 come segnale contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan (anni dopo lo avrebbero invaso loro), i sovietici non andarono a Los Angeles ’84 per rappresaglia. Ma le Olimpiadi hanno saputo aver ragione di tutto. Lo avranno anche del coronavirus: la luce in fondo al tunnel è la fiaccola olimpica. 
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