Mario Ajello
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Particolarismi e unità/ Sfida lombarda allo Stato e suoi rovinosi effetti

di Mario Ajello
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Martedì 24 Marzo 2020, 00:17
È sotto gli occhi di tutti, ed è una pena che si aggiunge alle altre, lo spaesamento degli italiani che per sapere con precisione ciò che possono o non possono fare, devono incrociare i decreti nazionali con le ordinanze regionali, rischiando di perdere la testa. E correndo il rischio di non riconoscere più - il che è gravissimo e la colpa lumbard è macroscopica - la gerarchia delle fonti del potere. Una gerarchia che non può essere capovolta oltraggiosamente e in maniera anti-storica a tutto vantaggio delle Regioni e a discapito dello Stato centrale. 

Fa impressione, o meglio desta una profonda preoccupazione, sentire il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, rivolgersi al ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, così: «Che cosa devo applicare, la mia ordinanza o il vostro Dpcm?». Il solo proporre questa questione, come se un governo locale potesse parificarsi a un governo nazionale, è un oltraggio. Oltretutto, il pulpito da cui viene la pretesa di un potere territoriale che sfida l'autorità dello Stato centrale è quanto di più improbabile e di meno garantito si possa immaginare. La Lombardia, Regione che purtroppo ha un numero abnorme di vittime, ha precise responsabilità nella lentezza e negli errori con cui all'inizio si è combattuta la guerra al virus. Certi ritardi della politica italiana si devono alla cattiva partenza, e alle ulteriori inefficienze e impuntature, che hanno contraddistinto in negativo la Lombardia (ci sono tweet e video di Salvini che stigmatizzavano per esempio, il 27 febbraio, l'aeroporto di Roma: «Surreale che sia tutto chiuso. Va lasciato aperto tutto quello, dai bar alle discoteche e ai centri commerciali, che serve alla vita delle persone»). La Lombardia, pur dotata di eccellenti strutture sanitarie, dove da subito bisognava separare i percorsi clinici dei malati di Convid-19 da quelli di tutti gli altri ricoverati negli ospedali. Ma questo non s'è fatto. La divisione dei malati avrebbe evitato la propagazione del bacillo. Le rovinose conseguenze per questa stessa splendida terra e per il resto del Paese le conosciamo. 
Errori a cui rimediare, direte. Ebbene, purtroppo se ne sono aggiunti altri sempre peer la stessa miopia e ostinazione. Quella per esempio di una bella fetta degli industriali lombardi che, per inseguire il profitto anche a discapito del rispetto civile della salute pubblica e dell'ossequio patriottico alle sorti generali, ha insistito fino alla fine e ancora lo fa per tenere aperte le fabbriche. Mentre in tante altre parti d'Italia si sono responsabilmente chiusi cantieri, si sono sospese le attività e s'è rinunciato al tornaconto particolare per una comune battaglia nazionale, ad altre latitudini - in una sorta di nordismo di ritorno che fa a pugni con la presunta neo-predicazione leghista del «prima-gli-italiani» - le forze produttive hanno disertato. Facendosi forti della protezione della politica locale e partecipando a una sfida al potere centrale che non solo è inammissibile ma taglia le gambe a tutta la strategia di contenimento del morbo. 
Ma c'è un' altro fattore, un'altro freno che ha rallentato l'efficacia delle sacrosante restrizioni per arginare il virus. In questo contesto ha avuto buon gioco la Chiesa per inserirsi e per perseguire - all'insegna della caccia al consenso tra i fedeli - la strategia delle parrocchie aperte. Se sono aperte le fabbriche, perché non anche le chiese? Se i primi anelli della catena sono messi male, insomma, tutto il resto ne consegue. Insomma, siamo davanti a spinte centrifughe che possono creare gravi danni al dispiegarsi dell'azione dello Stato. L'unico chiamato a tutelare la salute pubblica. 

Ancora un esempio, questa volta più laico seppure intriso di fanatismo localista. Appena la Lombardia ha capito che il governo si stava muovendo verso restrizioni èpiù draconiane, ha giocato d'anticipo - come se stessimo parlando di sport e non di tragedie - per sfornare per prima quelle regole e metterci sopra il cappello con un piglio bonapartista in salsa Pirellone. Dicendo: noi siamo la vera autorità che conta e l'intendenza, cioè Roma, seguirà. Verrebbe da sorridere se la situazione non fosse così grave. Anche perché è stata proprio l'imperizia lombarda sui fronti già illustrati a costringere lo Stato a intervenire, supplendo a un disastro in corso. Quel che sta reggendo in questa crisi, e sta tenendo in piedi un Paese aggredito, è semmai - con buona pace dei succedanei di chi gridava «Roma ladrona» - l'ossatura dell'amministrazione pubblica, formata da quegli alti dirigenti dello Stato, dai super-funzionari, dai capi di gabinetto e dai direttori generali dei dicasteri (e da certi ministri più capaci di altri) che stilando i provvedimenti stanno consentendo all'Italia di combattere l'epidemia e di diventare modello per altri Paesi nella lotta al virus. E' gente, professionale, che non esterna su Twitter, non pontifica sui media, non battibecca nei talk show. E fa da cinghia di trasmissione tra decisione politica ed esecuzione amministrativa. C'è chi scompostamente si agita a certe latitudini e chi sommessamente opera in altre. L'Italia che vuole restare Italia sa da che parte stare.
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