Coronavirus, il primario di terapia intensiva a Bergamo: «Rischio focolai di ritorno»

Coronavirus, il primario di terapia intensiva a Bergamo: «Rischio focolai di ritorno»
di Franca Giansoldati
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Domenica 15 Marzo 2020, 14:49 - Ultimo aggiornamento: 16 Marzo, 06:36

Bergamo - Il primario di Terapia Intensiva all'ospedale di Bergamo, dove i decessi sono continui, il professor Luca Lorini, prevede per i prossimi giorni il picco dei contagi e già alla fine della prossima settimana la curva calante. «Ma sempre se la gente sarà rispettosa e resterà a casa».

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Lorini parla di una sorta di guerra silenziosa e subdola. In queste settimane nel suo ospedale ha visto morire anche amici e colleghi, persino uomini che stavano bene ed erano giovani. «Ne approfitto per lanciare un appello tramite il Messaggero a rispettare i divieti imposti. In questo momento è come se ci fossero tante Italie e forse non tutti hanno ben presente cosa è accaduto o sta accadendo qui. Vorrei chiedere a tutti di ricordare che dal rigore che ci imponiamo non si alimenteranno ulteriori focolai futuri. Lo ripeto: il pericolo, una volta che il picco è passato, sono i focolai di ritorno. E' un possibile rischio che farebbe ripartire di nuovo tutto. E sarebbe disastroso». 



Possibile che si muoia più che in Cina?

«I numeri del contagio evidentemente non sono quelli che vengono raccontati. Mi spiego: si stima che per ogni tampone positivo vi siano almeno cinque altre persone che sono state contagiate anche se sono asintomatiche o hanno già superato questa malattia. Non risultano conteggiati perchè non hanno mai fatto un tampone. Un aspetto che dimostreremo a breve facendo dei tamponi a campione. Ecco perchè è fondamentale non avere contatti, evitare la socialità, fare un sacrificio e restare a casa». 

Però noi abbiamo una mortalità più alta...

«I nostri numeri riguardano coloro che arrivano in ospedale e stanno già male. Tante persone però guariscono spontaneamente, anche se noi osserviamo solo le persone gravi». 

Perchè adesso muoiono più giovani?

«Perchè la malattia è partita a metà di febbraio, e come succede sempre nelle epidemie, le persone che si ammalano subito e fanno i grandi numeri sono gli anziani. Poi dopo una decina di giorni emergono le malattie dei giovani che, a loro volta, si dividono in coloro che hanno superato la malattia e coloro che si presentano in ospedale in uno stato grave e già compromesso, dopo avere combattuto a casa la patologia. Se fossero arrivati prima in ospedale avrebbero avuto più possibilità di salvarsi. La malattia ha una incubazione lunga e noi calcoliamo che i bilanci si faranno alla fine di questa settimana. Noi puntiamo a spegnere il contagio. E' l'obiettivo primario». 



E' preoccupato?

«Si. Da una cosa soprattutto: la gente deve capire che ce la faremo se solo sarà rigorosa a restare in casa. Non possiamo permetterci focolai di ritorno e il rischio, purtroppo, esiste perchè ci sono tante Italie e non una sola». 

Le misure prese dal governo funzionano?

«Le ritengo congrue ma tardive. Se le avessimo applicate prima avremmo possibilità di uscirne prima». 

A Bergamo è un bollettino di guerra..

«E' come una guerra per certi versi. Ognuno di noi a Bergamo ha un amico, un parente, un genitore che non ce l'ha fatta. HO tanti amici che sono morti e non erano anziani. Muoiono uomini di 60 anni sani». 

In ospedale in quanti vi siete infettati?

«In tantissimi. È conosciuto questo fenomeno. La percentuale di operatori che si ammalano si attesta al 20 percento. Significa che nel mio ospedale che conta circa 3500 persone, alla fine di questa epidemia, ci saranno 700 contagi tra medici e infermieri. Io non ho fatto il tampone, mi sento bene e poi devo mandare avanti tutto». 

Una ultima domanda: perchè si ammalano più i maschi che le donne? 

«La risposta esatta e scientifica la si saprà alla fine di questa epidemia. Al momento una possibile risposta riguarda la produzione di estrogeni femminili». 

C'è carenza di materiale in questo momento?

«Viviamo un po' alla giornata. Tante cose mancano in ospedale. Le scorte arrivano ogni due o tre giorni. Quello che può arrivare è sempre ben accetto ma il problema non sono tanto i soldi per acquistare. Quelli ci sono. Sono arrivate anche donazioni, la Regione, i privati, le associazioni di volontariato. Purtroppo quello che manca è il materiale, gli stumenti, che non si riescono a produrre e le fabbriche sono sotto stress. Bisognerebbe avere coraggio di convertire certe fabbriche, un po' come accadeva in tempi di guerra. Chi produce calze si mette a produrre momentaneamente mascherine, chi produce cuscini, i camici. Il problema sono i tempi e noi di tempo non ne abbiamo più». 
 


 

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