Vittorio Parsi
Vittorio Parsi

Gli anticorpi del Paese/Sindrome da sconfitta, il nemico da battere

di Vittorio Parsi
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Giovedì 27 Febbraio 2020, 01:43
Il coronavirus e la sindrome di Custoza, ovvero come la classe dirigente italiana riesce a trasformare gli incidenti in sconfitte. Custoza, luglio 1848: circa 75.000 uomini dell’Armata Sarda affrontano un numero equivalente di soldati austriaci. Dopo circa una settimana di scaramucce e manovre, costate complessivamente un migliaio tra morti e feriti per parte, i Sardo-Piemontesi si ritirano oltre il Ticino e trasformano in una tragedia politico-militare uno sfortunato episodio bellico minore. 

Ancora Custoza, giugno 1866: il Regio Esercito, forte di 120.000 effettivi divisi tra Cialdini e La Marmora, riesce ad affrontare in inferiorità numerica 750.000 austriaci. Al termine della battaglia gli italiani contano circa 3.200 tra morti e feriti, gli austriaci oltre 5.000. La Marmora perde la testa, descrive uno scontro marginale tra reparti isolati come una disfatta in grado di mettere a rischio la Corona stessa e ordina la ritirata generale, abbandonando parte della Lombardia orientale e la Romagna alla potenziale offensiva nemica. Che non ci sarà; e, grazie alla vittoria prussiana a Sadowa, l’Italia otterrà il Veneto insieme a una pessima reputazione al suo esordio sulla ribalta internazionale. 

Il punto lo ha fatto con la sua consueta chiarezza Walter Ricciardi, qualche giorno fa: «Il grande allarme sulla diffusione del virus deve essere ridimensionato», anche se quanto è accaduto in Italia «non è da sottovalutare». Cerchiobottismo? No. Semplice buon senso, così come il buon senso imporrebbe che autorità centrali e regionali non battibeccassero (non dividessero le forze, sulla scorta di Cialdini e La Marmora) e non alimentassero una psicosi che evidentemente è, non da oggi e non certo solo sulla paura “dello morbo” (per dirla con Brancaleone da Norcia), il più grande pericolo che l’Italia corre quando è messa di fronte a ciò che non va secondo le aspettative, a ciò che la spaventa. Guardando alla gestione del contenimento del virus, due cose colpiscono: la frammentazione delle risposte e il costo certo ed enorme delle iniziative intraprese. La moltiplicazione dei punti di comando ha magnificato la difficoltà di coordinamento, con iniziative in ordine sparso che hanno reso la percezione della gravità della crisi maggiore della sua realtà, amplificando all’interno le reazioni scomposte di tanti e rinfocolando all’esterno il pregiudizio malevolo sugli italiani dei quali non si capisce mai fino in fondo il comportamento.

Così, se è stato giusto delimitare e circoscrivere le “zone rosse” dove il contagio è divampato, forse è stato eccessivo fornire l’idea che pressoché l’intero Nord fosse un gigantesco lazzaretto, immagine peraltro poi associata da taluni governi a tutta l’Italia. Non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze sanitarie del virus – ma l’Organizzazione Mondiale della sanità ha ribadito nelle scorse ore che «non siamo ancora di fronte a una pandemia» – però sono già chiare le pesantissime conseguenze economiche ed occupazionali delle misure adottate. Da più parti si osserva che quel che è apparso un eccesso di severità draconiana nella cosiddetta zona gialla è legato in realtà alla limitatezza dei posti letto in terapia intensiva disponibili a livello nazionale (poco più di 5.300). Ma se questa era la ragione, non sarebbe stato meglio spiegarlo apertamente fin da subito, in un discorso non paternalistico né drammatizzante, col ciglio asciutto, e senza perdersi (ora) in polemiche sui diversi modelli sanitari delle diverse regioni e sulla loro presunta efficienza e profittabilità (per lo Stato e per i privati)? Non sarebbe stato meglio dire “vogliamo limitare al massimo i casi di contagio non per la sua pericolosità intrinseca, ma perché i comunque pochi (in numero percentuale) casi gravi potrebbero produrre conseguenze insopportabili per il sistema sanitario nazionale”? 

I mezzi di informazione sono finiti nel mirino per aver alimentato la psicosi, così come lo sono stati i social. E sicuramente alcuni più di altri, avranno avuto la loro porzione di responsabilità. Del resto persino eminenti studiosi non hanno proprio dato il meglio di sé, in termini di polemiche, protagonismo e irruenza declamatoria. Molti “leader” di partito hanno poi fornito il consueto, penoso spettacolo. Per inciso, nel frattempo, come sempre, chi è in prima linea (a partire dal personale sanitario) sta mostrando abnegazione, forza morale e senso del dovere. Ma è alle autorità di governo, locale e centrale, che spetta innanzitutto dimostrare compostezza, e unità d’azione: distanza prospettica rispetto al problema e vicinanza e condivisione nei confronti della pubblica opinione. Ciò che chiediamo è che la dura prova a cui comunque il Paese è sottoposto non finisca col trasformarsi in una guerra perduta quando nessuna battaglia lo è ancora: per autolesionismo e confusione da parte di chi ha responsabilità di comando, a tutti i livelli. Quel che temiamo non è una Caporetto, ma l’ennesima Custoza, che i cittadini di questo Paese proprio non si meritano.
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