Romano Prodi
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Ricatto degli “austeri”/ Il naufragio sul bilancio toglie futuro all’Europa

di Romano Prodi
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Mercoledì 26 Febbraio 2020, 00:18
So di essere provocatorio, ma sono costretto a pensare che il fallimento dell’accordo sul bilancio comunitario costituisca, per l’Unione Europea, un messaggio forse peggiore della Brexit. Nella riunione degli scorsi giorni si trattava infatti di decidere l’ammontare delle spese e la loro suddivisione per un periodo di ben sette anni, dal 2021 al 2027, e si è visto come l’obiettivo di raggiungere ragionevoli risultati nella formulazione del bilancio europeo sia sempre più lontano. 

Un bilancio che è sempre stato mantenuto nell’ordine dell’1% del prodotto nazionale lordo europeo, una percentuale non solo incompatibile, ma ridicolmente inadeguata per gli obiettivi che l’Europa stessa si è posta al fine di esercitare un ruolo significativo nella futura politica e nella futura economia mondiale. È infatti evidente che con disponibilità così limitate non si può nemmeno pensare alle sfide dell’ambiente, della politica sociale, della sicurezza, della tecnologia e dell’intelligenza artificiale che ogni giorno diciamo di voler affrontare. Tanto più che i 1000 miliardi di Euro del bilancio europeo sono destinati per circa i due terzi all’agricoltura e all’aiuto delle regioni più arretrate mentre, con il restante terzo, si deve fare fronte a tutte le altre spese: dalla cultura alla ricerca, fino al costo del funzionamento delle istituzioni comunitarie.
Di fronte a queste sfide cruciali per il nostro futuro, trenta ore di discussione non sono bastate per accordarsi su un ridicolo aumento di spesa dall’1% all’1,074%, un aumento che pure sarebbe stato del tutto inadeguato rispetto alle nostre minime esigenze.

Le motivazioni sono state le più diverse: dalla difesa dei pagamenti in favore dell’agricoltura e delle politiche regionali, fino al non volere rinunciare agli sconti speciali che alcuni tra i paesi ad alto reddito avevano ottenuto sulla scia dei privilegi concessi alla Gran Bretagna. Privilegi che non hanno più ragione d’essere dopo la sua uscita dall’Unione. 
Quello che più mi irrita è tuttavia il fatto che Austria, Olanda, Danimarca e Svezia (cioè i quattro paesi che, con il tacito appoggio della Germania, si sono opposti all’aumento del bilancio) si siano autodefiniti “frugali”, sottintendendo che gli altri non lo siano e facendo evidentemente intendere una superiorità etica che mi sembra davvero fuori posto e comunque del tutto estranea agli interessi economici e agli obiettivi politici impliciti nel loro veto all’aumento del bilancio europeo.

Perché il lettore comprenda appieno come stanno le cose non voglio spingermi a elencare i vantaggi che le discutibili politiche fiscali oggi in vigore portano ad alcuni di questi paesi. Mi limito solo a riferire le statistiche del Fondo Monetario internazionale, riportate in un recente articolo dell’economista americano Jeffrey Sachs. Secondo il Fmi il governo olandese riscuote entrate fiscali pari al 43% del Pil, entrate che salgono al 48% per l’Austria, al 49% per la Svezia e al 52% per la Danimarca. Il fatto di non volere superare l’1% per il bilancio europeo sottintende non solo una sfiducia nei confronti degli altri membri dell’Unione, ma rende impossibile una qualsiasi evoluzione positiva della politica europea. Sono infatti innumerevoli i settori nei quali la dimensione nazionale non è in grado di affrontare le sfide che condizionano il nostro futuro: dalla difesa all’emigrazione, dai nuovi orizzonti della ricerca alla protezione dell’ambiente. 
Un atteggiamento così restrittivo significa che vi è in Europa un consistente, anche se minoritario, numero di paesi che non vogliono né mettere insieme le risorse per costruire un destino comune, né ridiscutere le direzioni e le priorità delle politiche future.

È inutile che la Commissione Europea proponga progetti necessari e coerenti per l’ambiente o per la nostra sicurezza e che il Parlamento Europeo proponga mozioni in appoggio a una politica più vigorosa: senza un adeguato bilancio non si possono affrontare le sfide che gli Stati Uniti e la Cina hanno messo in campo con una quantità di risorse infinitamente superiori. 
Dopo il fallimento del vertice del Consiglio si cercherà evidentemente l’ennesimo compromesso e può anche essere consolante che l’Italia, insieme al Portogallo e alla Romania, sia stata chiamata a prepararlo. Le premesse sono tuttavia tali che il compromesso dovrà mantenersi entro confini che non ci permetteranno di aver alcun ruolo nel determinare il nostro futuro. 

La conclusione è semplice: l’attuale processo decisionale, in cui il potere si accentra nel Consiglio Europeo e nel quale il diritto di veto è ormai uno strumento abituale in mano ad ogni singolo paese, non è compatibile con le decisioni che debbono essere prese per garantirci qualche prospettiva per il futuro. Solo attribuendo al Parlamento Europeo il ruolo centrale che esso gioca in ogni democrazia e solo attraverso una “congiunta ribellione” del Parlamento e della Commissione si possono costruire le premesse per avvicinarci a quest’obiettivo. Mi auguro che si prenda atto di questa realtà prima che il Consiglio europeo si riunisca di nuovo per accordarsi sul nulla. 
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