Una regista documenta la resilienza femminile e il potere della fede nelle zone della guerra in Siria

Una regista documenta la resilienza femminile e il potere della fede nelle zone della guerra in Siria
di Franca Giansoldati
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Venerdì 14 Febbraio 2020, 11:05

La guerra, la resilienza delle donne, la capacità di manifestare tanta umanità in situazioni al limite del sopportabile, il potere della fede. Una regista donna – Maria Luisa Forenza – ha raccontato la vita delle donne durante la guerra in Siria, documentando in special modo quella delle religiose e la lotta quotidiana per salvare la dignità di chi è stato travolto dal conflitto siriano. Il docu film si intitola Mother Fortress e verrà proiettato al cinema Farnese di Roma martedì 18 febbraio in anteprima. E' un elogio alla vita, alla speranza, alla capacità femminile di cogliere sfumature e luci anche dove sembra esserci solo buio. Il film racconta di un’esperienza, vissuta in prima linea dall’autrice-regista (e produttrice) tesa a testimoniare non gli aspetti drammatici del conflitto, quanto gli effetti da esso provocati all’interno di una comunità in cui le differenze religiose lasciano il posto all’aiuto umanitario mosso da uno spirito di condivisione e sorriso anche in situazioni estreme.

E’ stato nel corso di alcune conferenze negli Stati Uniti, nel 2013, che Forenza ha avuto modo di ascoltare, conoscere e iniziare a filmare Madre Agnes, badessa del Monastero di Qarah, a nord di Damasco, che veniva a raccontare ciò che stava accadendo in Siria, e in particolare nei territori di Aleppo e Deir Ez-Zor, insidiati dal pericolo di Al Qaeda e ISIS. Nel 2014 decide di raggiungerla per conoscere la sua comunità monastica internazionale (proveniente da Antico e Nuovo Continente) e vi ritorna altre volte fra il 2015 e il 2017, seguendo un convoglio umanitario che si inoltra fino all'Eufrate per portare assistenza ai siriani sfollati e colpiti dal terrorismo.

Testimone sul campo di un attacco dell'ISIS a Qarah e al Monastero nel 2015, ricorda: «Ho filmato quello che c'era realmente ovvero la drammaticità del silenzio, dal momento che eravamo rimasti tutti muti. Ognuno in quel momento si è assunto la responsabilità della propria esistenza, una dilatazione che ho cercato di cogliere con lo spazio vuoto e con il suono. E su quest’ultimo precisa: «I canti cristiani in arabo e francese (le principali lingue siriane, utilizzate anche nel monastero assieme a spagnolo, portoghese, inglese, latino) erano una soundtrack che scandiva la quotidiana ciclicità di meditazioni, preghiere, liturgie di monaci e monache. I giorni e le notti del monastero erano scandite da preghiere cristiane e musulmane, come un canto e controcanto che ho cercato di documentare in tutto il film».

La regista non ha quasi mai usato lo zoom. L’emozione l’ha data con le inquadrature fisse. C’è una tensione continua, ma interna nell’inquadratura, non è provocata dall’esterno. E’ stata di un rigore estremo. Girato in un convento con protagonista una suora, anzi suore e monaci, è un film assolutamente laico. 

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