La storia di Sarah, quell'amore così fragile così violento nel romanzo di Delabroy-Allard

La storia di un amore difficile tra due donne nel romanzo "E' la storia di Sarah" di Pauline Delabroy-Allard
di Leonardo Jattarelli
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Giovedì 13 Febbraio 2020, 18:35
Un amore improvviso, lacerante. Una luce che acceca e che va oltre i confini della razionalità, delle barriere sociali e sessuali, della morale. Una sera, la sera di Capodanno, sarà l’inizio di una struggente storia d’amore tra una matura insegnante e Sarah, una violinista trentenne. Come se fino ad allora le due vite, quella della narratrice e quella della giovane musicista non avessero avuto senso di avere un inizio, perché l’inizio prende il via da una scampanellata «vivace, una specie di frustata artefatta che regna dentro l’appartamento. Siamo tutti in ghingheri per il cenone di Capodanno, decisamente troppo inamidati, tre coppie che si guardano di sottecchi, sorprese di trovarsi qui». E’ dopo quella scampanellata, che l’insegnante, donna che vive «giorni che si somigliano un po’ tutti, tra i doveri di giovane madre, di giovane professoressa, i doveri di figlia, di amica» s’imbatte nell’uragano Sarah. C’era lei dietro quella scampanellata, lei inattesa che «fuma sigarette, è troppo truccata, vista da vicino è ancora peggio. Parla forte, ride molto, è divertente, a suo modo. Ha un gergo tutto suo...E’ così viva...». 




“E' la storia di Sarah”, opera prima della trentaduenne francese Pauline Delabroy-Allard, tra i cinque finalisti del premio Goncourt 2018 e ora finalmente arrivata a noi con Rizzoli, è una sorta di diario sentimentale che si snoda tra musica, poesia, multiformi paesaggi interiori. Tutta la narrazione ha un sapore crepuscolare, il susseguirsi delle stagioni si risolve in un eterno autunno malinconico, qua e là interrotto da grandi slanci di gioia che si affievoliscono per poi riprendere vigore ad ogni incontro tra le due donne, ad ogni abbandono, incomprensione, riappacificazione, sorpresa e di nuovo distanza che sembra incolmabile: «L’autunno arriva senza preavviso. Sarah irrompe con una marea di cornetti e brioche, dice venite, tesori, andiamo al mercato. Mi bacia, propone di preparare un’insalatona, vuole fare l’amore in continuazione, assolutamente in continuazione. Mi lascia dormire solo quando mi ammalo...». Poi, poche pagine dopo, la narratrice: «E’ trascorso un anno, un anno di musica, un anno di brividi, un anno di zolfo. Dice che vuole lasciarmi, che la vita che conduciamo è troppo tumultuosa, è una tempesta. Il capitano abbandona la nave. Non sa che piango sotto la doccia tutte le mattine...».




Pauline Delabroy- Allard riesce così a rapire e a farci avvertire l’altalena terribile dell’amore, volendo, in realtà, descrivere quello che avviene nell’animo femminile quando si è ad un punto di svolta, alle prese con decisioni inderogabili in una età in bilico tra la libera giovinezza e l’imbrigliata maturità. 
La protagonista, non a caso, sceglie infine di staccare i piedi da terra, di provare a volare prendendo le distanze da tutto e tutti, anche dalla sua famiglia. Ad accoglierla, una Trieste malinconica ma madre affettuosa: «Se torno a casa, se riesco a tornare a casa, non dovrò mai dimenticare l’infanzia ritrovata che ho scoperto qui, a Trieste...Perché qui c’è il tempo ritrovato? E’ questo che sono venuta a cercare...».
E Sarah, la sua Sarah, dov’è? Forse sta tutta in un verso di Stendhal che parla di Trieste, citato dall’autrice: «Lo chiamo vento forte quando si è costantemente occupati a tenersi stretti il cappello, e bora quando si ha paura di rompersi un braccio». 
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