Alessandro Orsini

Università, lo squilibrio tra docenti e ricercatori

Università, lo squilibrio tra docenti e ricercatori
di Alessandro Orsini
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Venerdì 7 Febbraio 2020, 00:05
I professori universitari detengono un sapere senza pari. Dal momento che vengono pagati per insegnare e fare ricerca, le ore che dedicano a tali attività sono migliaia. Con pochissime eccezioni, nessun romanziere, giornalista o professore delle scuole superiori, potrebbe reggere il contraddittorio con un professore universitario. I manuali più utilizzati nelle scuole superiori sono scritti da professori universitari. L’esistenza dell’università è la prova imperitura della divisione gerarchica della società.

Da quando gli uomini hanno iniziato ad associarsi e cooperare, sono nati il superiore e l’inferiore, dove il primo esercita il dominio sul secondo. Ma che cosa accade quando un professore universitario si rifiuta di utilizzare la propria conoscenza contro il “campo” a cui appartiene? Accade che la vetta del sapere decade: la società, non riuscendo a capire quale sia l’origine dei mali dell’università, non può chiedere l’introduzione di riforme politiche per imporre ai professori universitari comportamenti più virtuosi.

Ora, una delle caratteristiche dell’università pubblica italiana è la corruzione che nasce, in misura preponderante, dalla mancanza di senso dello Stato dei suoi professori. Per decenni, molti concorsi universitari sono stati truccati o pilotati, e questo contribuisce a spiegare perché, in Italia, ci siano oggi centinaia di ricercatori e di professori universitari con profili scientifici bassi - secondo i criteri che vigono nelle più importanti università del mondo - e privi di internazionalizzazione. Per verificarlo, basta fare un giro sui siti internet delle università italiane e cliccare sui profili di tanti rettori, direttori di dipartimento e professori di ogni grado.

Questa è una delle ragioni per cui i ricercatori universitari guadagnano così poco. Siccome la società italiana intuisce che l’università è corrotta, non s’indigna per il fatto che un ricercatore universitario bravissimo guadagni 1500 euro al mese, come la ricercatrice precaria che ha isolato il coronavirus. L’uomo comune, che paga le tasse per mantenere l’università pubblica, non ha gli strumenti per distinguere i ricercatori bravi da quelli immeritevoli. L’unica cosa che ha compreso è che riempire l’università di euro significa irrobustire una macchina troppo corrotta nei meccanismi di reclutamento, selezione e avanzamento delle carriere. 

Come vengano corrotti tali meccanismi, i professori universitari si guardano bene dal dirlo, e questo rende difficile spingere le persone comuni a protestare contro certe pratiche accademiche “invisibili”. I professori universitari italiani utilizzano il proprio sapere per criticare la corruzione dei politici, mai la propria. Ostili alla sociologia riflessiva di Pierre Bourdieu, la loro conclusione è nota: «L’università italiana non funziona perché i governi non investono adeguatamente nella ricerca».

Tuttavia nessun professore universitario dice che, per decenni, larga parte dei finanziamenti pubblici è stata utilizzata per alimentare corruzione e clientelismo, come si evince chiaramente dai siti internet di tante università italiane e dagli esiti di numerosi concorsi accademici. 

Tutto questo ha ricadute dirette sulla nostra libertà perché un’università corrotta corrompe “a cascata”, e cioè dall’alto verso il basso, tutta la società. La corruzione accademica, per perpetuarsi, deve educare a tenere la bocca chiusa, non ad aprirla. Ecco perché la società italiana è stata alleata di pensionati, immigrati, operai, mai dei ricercatori universitari: non nascono movimenti di protesta per difendere il mondo della ricerca. In conclusione, il problema degli stipendi bassi dei ricercatori universitari è più complesso di come appare, essendo un problema che investe il rapporto tra l’università e la società.

aorsini@luiss.it
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