«È stato un vero e proprio incubo – racconta la vittima dell’errore giudiziario – mia madre è morta mentre ero in carcere e quel giorno mi portarono in chiesa con il cellulare a funerale già concluso, come fossi un vero delinquente». Ci sono voluti cinque gradi di giudizio e poco meno di un ventennio per riconoscere l’errore, determinato in particolare dal fatto che, nell’intero corso del primo iter processuale, nessuno si è preso la briga di esaminare i tamponi vaginali, prelevati in ospedale, proprio allo scopo di verificare se sul corpo della presunta vittima fosse presente il dna dell’imputato.
Così fu presa per buona la versione della donna, che nell’agosto del 2003, dopo l’ennesima lite al termine di un burrascoso rapporto di convivenza, denunciò di essere stata costretta da Colella ad avere un rapporto sessuale completo. L’uomo finì a processo davanti al tribunale di Chieti che, in primo grado, nonostante il referto del pronto soccorso non evidenziasse lesioni compatibili con la violenza carnale, lo condannò a 6 anni di carcere. La Corte d’Appello dell’Aquila, nel 2009, ridusse la pena a 3 anni e 10 mesi, e la Cassazione, due anni dopo, rese definitiva la sentenza di condanna. Colella, però, non si perse d’animo e continuò a combattere. Deciso ad affermare la propria innocenza anche dopo avere scontato la pena, Colella si rivolse all’avvocato Giuseppe Sabato, che riuscì a ottenere la revisione del processo, insieme all’analisi dei campioni biologici conservati nell’ospedale di Chieti. Proprio le analisi hanno giocato un ruolo decisivo, in quanto i risultati – come illustrato dal perito nominato dalla Corte d’Appello di Campobasso - hanno consentito di stabilire che erano presenti tracce di Dna maschile nelle parti intime della donna, ma che non erano appartenenti a Colella.
Alla luce di questa prova, già disponibile all’epoca del primo processo, ma inspiegabilmente mai acquisita né valutata dai giudici, nel dicembre del 2018 la Corte molisana ha finalmente assolto l’imputato «perché il fatto non sussiste». In seguito la donna ha tentato di ottenere l’annullamento della sentenza a lei sfavorevole, proponendo ricorso davanti alla Corte suprema, ma la Cassazione ha confermato la piena innocenza di Colella. Resta lo sgomento per il clamoroso errore giudiziario.
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