Paolo Fresu, come sarà proporre questo spettacolo a Perugia?
Qui ci arriviamo dopo un anno e mezzo di tournée, quasi alla fine. Non nego che farlo a Perugia ha un significato particolare, perché è un progetto realmente legato al jazz e nella “città del jazz” avrà una lettura particolare.
Questo spettacolo cosa ha di diverso rispetto ad altri omaggi a Baker?
Ha una diversità preziosa, ovvero si tratta di un vero spettacolo teatrale, credo si tratti dell’unico nel mondo dedicato a Chet: oltre 40 ruoli interpretati, dalle mogli ai suoi vari produttori, con 3 musicisti che suoneranno dal vivo. Tutto quel che c’è dentro è reale, non si tratta solo di drammaturgia ma il regista ha studiato la vita di questo artista riuscendo a creare un ritratto molto veritiero.
E se lo sostieni tu, che sei un appassionato di Baker…
Io credo di sapere molto su Chet, mentre quando abbiamo iniziato a lavorare sul progetto Muscato non lo conosceva. Gli ho consigliato cose da leggere e film da vedere. È anche uno spettacolo divulgativo, quindi accade che vengono molti appassionati di teatro che sanno poco di musica (e viceversa) i quali, una volta a casa, magari hanno voglia di scoprire di più questo artista.
Lo spettacolo attraversa varie epoche?
Sì, emergono con forza le epoche diverse attraversate da Chet Baker. C’è tanta Italia, Paese che ha molto amato e finiva spesso sui nostri rotocalchi. A tutti gli effetti è un lavoro costruito sui “tempi diversi” della sua vita, una sorta di puzzle composto da tanti tasselli diversi.
In questa nostra epoca lui come si troverebbe?
Non credo che sarebbe in sintonia con questa epoca. Ora la maggior parte dei musicisti jazz sono salutisti e bevono solo acqua! Forse oggi lui sarebbe un pesce fuor d’acqua, oppure vivrebbe la sua vita in maniera poetica e maledetta, come ha fatto allora. Probabilmente sarebbe quel che è stato, anche oggi. Del resto seguiva solo il suo pensiero e il suo stile, era un vero anarchico…
Questo spettacolo, insieme ad altri tuoi progetti, ha un forte fine educativo e divulgativo. Credi in questa missione della musica?
Assolutamente. E a giudicare dal successo di tali iniziative l’interesse c’è. Abbiamo fatto numeri eccezionali con lo spettacolo su Baker. Secondo me questo in parte dipende dalla storia molto affascinante, ma anche dal fatto che si uniscono dei linguaggi differenti come quello teatrale e quello musicale. Credo che tali operazioni non solo siano importanti, ma risultino necessarie. Si parla con pubblici diversi e stimola la curiosità. Come quando qualcuno viene per sentirci suonare da sopra un albero (progetto lanciato durante l’ultima Umbria Jazz e che presto avrà un seguito, ndr) ma poi riceve anche messaggi legati al territorio. La musica diventa l’epicentro e noi musicisti ci sentiamo importanti: se quelle quattro note mettono insieme le persone e portano curiosità… allora la musica raggiunge il suo significato più profondo.
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