Leonidas Kavakos: «L'arte non è un lusso, è la speranza. E Beethoven è necessario»

Il violinista Leonidas Kavakos
di Simona Antonucci
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Mercoledì 22 Gennaio 2020, 20:28 - Ultimo aggiornamento: 20:29
«Da ragazzo, i miei maestri insistevano su un punto: studiare Beethoven, ma aspettare per suonarlo. Il perché lo capisci da adulto. Non si tratta soltanto di grande musica, ma di vita. I brani, alcune volte, sono costruiti addirittura in modo semplice. Magari due note su cui però imbandisce un mondo, una melodia che tocca nervi cosmici. E considerando come va il pianeta, io credo che, oggi, Beethoven non sia semplicemente un compositore geniale, ma un Maestro necessario. C’è bisogno di lui».

Leonidas Kavakos, greco, 52 anni, uno dei più importanti violinisti viventi, renderà questa sera (ore 20,30) il suo omaggio a Beethoven, interpretando al Parco della Musica di Roma, per la stagione da camera di Santa Cecilia, quattro delle dieci sonate dedicate a violino e pianoforte (2, 3, 6 e 7). Al suo fianco, il pianista Enrico Pace con il quale condivide una fruttuosa collaborazione artistica.

Kavakos impegnato in una tournée che lo porterà anche a Parma, a Torino, e a Madrid, tornerà a Roma, diretto da Noseda, dal 13 al 15 febbraio, il 25 marzo, sempre con Pace, mentre il 20 aprile, si esibirà ad Atene, in un programma beethoveniano con il maestro Gatti alla guida dell’Orchestra di Santa Cecilia.

Lei è considerato una leggenda del violino: sente la responsabilità di essere un grande virtuoso?
«Sono greco, vengo dal Paese di Platone e Fidia. Non credo che possano essere spese certe parole per me. Ci vuole il senso della proporzione. Leggenda o meno, sento però il senso di responsabilità. Sul palco e come divulgatore. Perché credo che l’arte sia l’unica speranza. Non è un lusso. È tutto».

Tutto? Per tutti?
«Ti apre un varco, il più diretto, verso la spiritualità. A differenza degli animali, che seguono l’istinto, noi impariamo come comportarci a scuola. L’arte, la musica in modo più diretto, ti guida verso il divino. Non parlo di concetti astratti. Molto più semplicemente: se fin da bambini riuscissimo ad apprezzare le coloriture di Beethoven, forse non distruggeremmo i colori della natura».

Perché la musica più della pittura o della danza?
«Perché utilizza il linguaggio più astratto. Che arriva nel modo più fulminante. A chiunque. Nell’opera, per esempio, non è così: ci sono la scena e il testo che mediano l’impatto. Quando ascolti Schubert, invece, le frasi sono la sua musica, non le devi capire. Ognuno le traduce dentro di sé e a suo modo».

E da Beethoven che cosa arriva al mondo di oggi?
«Lui ha sfidato i suoi tempi e tutto quello che era stato scritto prima di lui. Ha combattuto per ogni singola nota. Scendendo nel baratro per poi risalire. È questo l’insegnamento. Lui, come Michelangelo, esisterà per sempre».
Lei vive suonando in giro per il mondo: riesce ad avere del tempo per sé?
«Il tempo c’è sempre. È solo una questione di proporzioni e di priorità.
Tutto ha un prezzo. Ma quando hai la possibilità di avvicinarti a Beethoven, il prezzo che paghi è sempre molto basso».
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