L'emancipazione femminile soffocata sotto il Fascismo, alle donne ruoli subalterni «perchè poco intelligenti»

L'emancipazione femminile soffocata sotto il Fascismo, alle donne ruoli subalterni «perchè poco intelligenti»
di Franca Giansoldati
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Martedì 21 Gennaio 2020, 17:50 - Ultimo aggiornamento: 19:03

Se negli Stati Uniti il voto alle donne risale al 1920, in Italia le cose si  complicarono con l'arrivo di Benito Mussolini: il Fascismo soffocò ogni spinta di emancipazione femminile. A cominciare dal diritto al voto. Come si sa le prime elezioni amministrative alle quali le italiane furono chiamate a votare si svolsero a partire dal 10 marzo 1946 in 5 turni, mentre le prime elezioni politiche (svolte assieme al referendum istituzionale monarchia-repubblica) si tennero il 2 giugno 1946. La battaglia del suffragio universale avviata con l'unità d'Italia si arrestò definitivamente nel 1929 con la cancellazione totale del diritto di voto (maschile e femminile). Ma non solo. Per le donne iniziò anche un percorso a ritroso che le relegò quasi esclusivamente al ruolo di mogli e madri. Il fascismo le riteneva persino meno intelligenti.



Il 20 gennaio del 1927, con un decreto legge, il Governo fascista intervenne sui salari delle donne riducendoli alla metà rispetto alle corrispondenti retribuzioni degli uomini. L'economista Ferdinando Loffredo nella sua Politica della famiglia, nel 1938, motivava questa scelta così: «La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito […] Il lavoro femminile crea nel contempo due danni: la mascolinizzazione della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe».




A ricordare il secolare percorso accidentato dell'emancipazione femminile in Italia è la storica Ilaria Romeo, responsabile dell'archivio storico della Cgil.

Ovviamente anche Benito Mussolini su Il Popolo d’Italia nel 1934 riprendeva il concetto che le donne dovevano stare a casa a fare dei figli per il bene della patria: «L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbero di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale».

In un altro passaggio fondamentale il regime fascista intervenne sempre in modo discriminatorio. Con il Regio Decreto 2480 del 9 dicembre 1926 le donne vennero persino escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei. A loro furono poi tolte anche alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, e si vieterà loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto. «Già il Regio Decreto 1054 del 6 maggio – Riforma Gentile –  vietava alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie.  Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare».



Una altra legge del 1934 (legge 221) limiterà anche le assunzioni femminili, stabilendo dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, mentre un decreto legge del 5 settembre 1938 fisserà un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati.

L’anno successivo, il regime definì gli impieghi statali per le donne: dattilografia, telefonia, stenografia, servizi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici. A questo si aggiunge che potevano lavorare come annunciatrici alle stazioni radiofoniche; come cassiere (ma limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati); addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, giocattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire; addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati; sorveglianti negli allevamenti bacologici ed avicoli; direttrici dei laboratori di moda.

Ilaria Romeo conclude che non è un caso se Giovanni Gentile nel 1934 annotava: «La donna non desidera più i diritti per cui lotta […]. Nella famiglia la donna è del marito, ed è quel che è in quanto è di lui».


 

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