Gatti all'Opera con Bellini: «Quando preparo un brano costruisco una caccia al tesoro»

Il Maestro Daniele Gatti
di Simona Antonucci
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Martedì 14 Gennaio 2020, 16:48 - Ultimo aggiornamento: 17:51

«Quando preparo un brano, costruisco una mappa. La mappa di una caccia al tesoro. Tracce, tempi, suoni, indizi che conducono alla definizione del messaggio che vorrei far arrivare. E quel messaggio, per me, è il tesoro».
 

 


Daniele Gatti, direttore musicale del teatro dell’Opera di Roma e dell’Orchestra Mozart, consulente artistico della Mahler Chamber Orchestra, tra i più grandi Maestri al mondo, è al Costanzi per segnare il cammino che porterà a una lettura nuova di I Capuleti e i Montecchi, capolavoro di Bellini atteso dal 23 gennaio fino al 6 febbraio. Regia di Denis Kriev, cantano Vasilisa Berzhanskaya nel ruolo di Romeo (en travesti), Mariangela Sicilia in quello di Giulietta. Con loro sul palcoscenico Iván Ayón Rivas che darà voce al personaggio di Tebaldo, Nicola Ulivieri a quello di Lorenzo e Alessio Cacciamani sarà Capellio

«Ci ho messo dentro tutto il mio amore per il teatro. E mi sono preso molte libertà». Gatti tornerà a dirigere al Costanzi due lavori di Stravinskij, The Rake’s Progress e Oedipus Rex («Non ho pensato all’anniversario della morte, ma a un cammino dal neoclassicismo all’opera classica La clemenza di Tito di Mozart con cui inaugureremo la prossima stagione». A fine febbraio sarà a Santa Cecilia per due concerti consecutivi. Nel frattempo il San Carlo, poi Lipsia, Parma, la Scala, Parigi, Atene, Parigi... «E a giugno riposo».

Lei ha diretto I Capuleti a Bologna trent’anni fa e al Covent Garden nel ‘92. Poi mai più belcanto, tranne un Barbiere a Pesaro, con la regia di Ronconi. Con quale interesse ci torna oggi?
«Per una volta, nel mio teatro qui a Roma, volevo riconsiderare il belcanto e questo titolo che mi piace molto perché ha una sua modernità con delle aperture verso un teatro drammatico. La scena della tomba guarda al futuro. Definirla pre-verdiana forse è troppo. Ma quasi. Con le voci lasciate a recitare e un’orchestra che puntualizza appena e interviene con pudore. Squarci melodici, momenti di lirismo brevi, il duetto finale è il cuore dell’opera».

Quali libertà si è preso?
«L’interpretazione dei recitativi. Li ho resi dinamici. Sulla linea del lavoro che ho fatto con i Vespri, per l’apertura di stagione. Del resto il ritmo scenico è connesso alla psicologia dei personaggi. Che in Capuleti sono due adolescenti. Ho cercato una spontaneità che restituisse sentimento, natura, amore. Ma sono intervenuto anche sulle riprese delle arie, sui daccapo».

A Torino, con l’Orchestra della Rai ha da poco diretto un’incantevole e inconsueta Nona di Mahler. Che Bellini ascolteremo?
«Ho cercato di ritrovare il procedimento drammatico di Bellini. Noi ascoltatori, o interpreti, contemporanei abbiamo un approccio al belcanto “viziato” dal teatro verdiano. Il rischio che ne consegue è di cristallizzarlo. Io ho sottolineato la dinamicità di Bellini».

Come costruisce il rapporto con l’orchestra?
«Ascoltare è più importante di muovere le braccia. Con un’orchestra che si conosce, i musicisti entrano subito nella linea interpretativa, alcuni portano un arricchimento. Ma non c’è un unico modo di risolvere l’interpretazione. Io arrivo alle prove con una mappa e un tesoro in mente. Un suono ideale che si assesta durante il lavoro con l’orchestra. La magia, però, non si costruisce durante le prove».

E come?
«Anche prendendosi dei rischi. Un direttore non deve controllare tutto, ma essere in anticipo sulle idee. Quando passo la mano a un solista, so che non mi tradirà».

Il gesto vuole la sua parte?
«Il gesto è fisicità, mimica. Produce il suono. I mimi comunicano senza parlare. Noi direttori siamo debitori a quella scuola».

Lei spesso dirige senza spartito. Una memoria straordinaria: la coltiva?
«No. Ero così anche quando studiavo al conservatorio. Ogni tanto riprendo lo spartito. Dirigere a memoria può sembrare un virtuosismo, distrae dall’interpretazione e quindi a volte ripristino la normalità del leggio».

Arrivò in conservatorio anche grazie agli insegnamenti di suo papà, i dischi che le comprava, Mahler, Bruckner, Brahms: le manca un figlio cui trasmettere il suo bagaglio?
«Sì. Ma si può essere padri in tanti modi. Con i ragazzi delle orchestre con cui lavoro. Li tutelo soprattutto da debutti acerbi. Per dirigere certe opere bisogna aver vissuto. E sofferto». 

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