Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Macron e le pensioni/ Resistere alla piazza per garantire il futuro

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 19 Dicembre 2019, 00:05
Sono tante le piazze che si possono ricordare in questo 2019, in tutto il mondo. Piazze per il clima, piazze per l’uguaglianza, piazze conto l’odio e piazze contro la violenza. Se gli irrinunciabili principi di liberalismo e democrazia richiedono che il diritto alla protesta sia garantito ovunque e a chiunque, nemmeno si può però negare che il merito e i metodi delle proteste e delle manifestazioni possano essere discutibili se non addirittura sbagliati. È questo il caso, senza girarci intorno, delle recenti manifestazioni francesi a difesa del sistema pensionistico. Quando si tratta di pensioni, economia, politica e opinione pubblica entrano in un corto circuito che ha del paradosso. 

Tutti capiscono, o dovrebbero capire, che in società sempre più anziane le vecchie regole di finanziamento delle pensioni non possono più essere sostenibili. Eppure, ogni volta che un governo propone una revisione di tali regole, i sindacati più tradizionali e i partiti di opposizione più opportunisti si schierano acriticamente a favore dei lavoratori che sarebbero stati penalizzati. Il che può anche essere vero: ogni riforma crea vincitori e vinti. Ma la giusta domanda è: quanti sono e che potere hanno i vincitori? E chi sono i perdenti? Nella maggior parte dei casi, infatti, ci si accorge che le proteste vengono mosse da minoranze molto potenti e ben organizzate, a scapito del benessere comune. Cosa sta succedendo, nello specifico, in Francia? La riforma proposta, ora parzialmente ritirata o ritrattata, non è certo epocale.

Prevede un aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni (in Italia la riforma Fornero l’ha portata a 67 anni); oppure la possibilità di pensionamento anticipato ma al prezzo di una penalizzazione. Soprattutto, introduce l’omogeneizzazione dei regimi previdenziali e la soppressione di regimi speciali, particolarmente generosi per alcune categorie professionali come quella dei ferrovieri (che possono attualmente andare in pensione anche a 51 anni). Insomma, più una spending review previdenziale che una vera e propria rivoluzione. E da che cosa è giustificato l’intervento governativo, peraltro originato da una lunga riflessione nel corso dei mesi passati? I numeri parlano da soli: il rapporto tra spesa pensionistica e prodotto interno lordo, in Francia, è oggi del 15% e si prevede raggiungerà un massimo del 15,4% nel 2030. Livelli paragonabili a quelli italiani (in crescita dal 15,6% odierno al 17,4% nel 2030) ma decisamente superiori a quelli degli altri Paesi Ue (circa al 10%). È quindi ovvio che il governo sia preoccupato della tenuta finanziaria del sistema pensionistico. Ma non basta, perché anche l’età di pensionamento caratterizza la Francia come caso limite. L’età effettiva di pensionamento, infatti, è in media di circa 61 anni (in Italia 62), a fronte di una media dei Paesi Ocse ben più elevata. Non sembra quindi nemmeno così scandaloso un ritocco verso l’alto, almeno formale, dell’età di pensionamento. Ma perché la spesa è crescente? Perché fortunatamente viviamo più a lungo e ancor più fortunatamente viviamo meglio anche solo di qualche decennio fa. Italia e Francia sono tra i primi Paesi al mondo per aspettativa di vita alla nascita e anche per aspettativa di vita ai 65 anni.

Tuttavia, l’aumento dell’aspettativa di vita collegato alla diminuzione delle nascite comporta un generale invecchiamento della popolazione. Il tasso di fertilità in Francia è decisamente più alto di quello italiano (1,85 figli per donna contro 1,33), ma è ormai inferiore al tasso di 2,1 figli per donna, livello minimo per garantire un’armonica crescita della popolazione stessa. Il risultato finale è che l’indice di dipendenza, vale a dire il rapporto tra popolazione che ha più di 65 anni e popolazione tra i 20 e i 64 anni, passerà dal 37% del 2020 al 54,5% in Francia e dal 39,5% del 2020 al 74% nel 2050 in Italia (la media nei Paesi Ocse è oggi del 31%). Di fronte a queste cifre sembra impossibile pensare di non intervenire. Come ha reagito, invece, parte del Paese in Francia? Con una modalità che, seppure senza usare la violenza, non rinuncia certo alle maniere forti. Come definire altrimenti il sabotaggio, rivendicato proprio da alcune sigle sindacali, della rete elettrica che ha lasciato al buio 90.000 cittadini a Lione e nella Gironda? E come definire anche il blocco dei trasporti ? La politica ha risposto, come spesso fa, offrendo parziali marce indietro, spostando il carico della riforma sulle generazioni più giovani, e sacrificando all’opinione pubblica un capro espiatorio, vale a dire Jean-Paul Delevoye, alto commissario del governo per le pensioni, nonché creatore della riforma, che ha presentato le dimissioni ufficialmente per una vicenda di conflitto d’interessi.

Insomma, non esattamente la reazione che ci saremmo augurati. Ma, una volta tanto, e nonostante Macron non sia stato sempre amichevole con l’Italia, oggi è il caso di schierarsi a favore della sua riforma, esortandolo a mantenere dritta la barra del riformismo contro il populismo. Purtroppo trapela la pericolosa intenzione di fare marcia indietro: sarebbe un grave errore. L’esito delle contestazioni in Francia avrà infatti ripercussioni in tutta Europa e un cedimento alle posizioni più conservative potrebbe rinfocolare i partiti populisti in tutto il continente. La battaglia, economica e politica, è oggi anche squisitamente culturale: nei Paesi che invecchiano si dovrà andare in pensione più tardi oppure bisognerà accontentarsi di pensioni più basse; pena il crollo del sistema e la dissoluzione dei contributi e dei diritti che fanno capo ai lavoratori più giovani. All’interno di questa regola generale, si potranno trovare eccezioni che riguardano lavoratori precoci e mestieri usuranti. Ma è arrivato il momento di dire basta alle minoranze organizzate e strutturate che condizionano in maniera così arrogante le agende politiche, i conti pubblici e le aspettative di un intero Paese.
 
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