Dietro la Brexit/Il voto come un referendum, la scelta vinta da Johnson - di Vittorio Parsi

Dietro la Brexit/Il voto come un referendum, la scelta vinta da Johnson
di Vittorio Parsi
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Domenica 15 Dicembre 2019, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 01:42
Boris Johnson rappresenta uno dei rari casi recenti in cui chi è al governo vince le elezioni. Scopriremo se sarà un bravo premier, ma di sicuro Carl von Clausewitz gli avrebbe assegnato un rotondo 10 in strategia, per aver compreso quale fosse il “punto critico” (lo Schwerpunkt) dello schieramento avversario e avere impegnato lì la battaglia giovedì scorso. Ha trionfato individuandola fuoriuscita dallo stallo della Brexit come rottura dello status quo e proponendo se stesso come artefice del cambiamento.

Operazione che non era riuscita alla sua predecessora, Theresa May. Bojo ha invece colto perfettamente il sentimento popolare e ha capito che il suo profilo radicale ed eccentrico lo agevolava proprio conferendogli la credibilità necessaria. Jeremy Corbyn ha perso perché non ha realizzato su che cosa e dove si giocava la partita, non ha capito che la Brexit, proprio perché incompiuta, costituiva il centro della battaglia, il suo fulcro, e prevaleva o, meglio, “veniva prima” della tradizionale divisione destra sinistra. 

Intendiamoci, una cosa pur andando incontro alla disfatta Corbyn l’aveva intuita: che negli ultimi anni gli elettori stanno premiando le posizioni politicamente più radicali perché sono quelle più chiaramente riconoscibili, che dovrebbero garantire alternative secche, soprattutto se si presentano come fautrici di cambiamento. 

E infatti il suo programma è stato un programma radicalmente di sinistra, a favore di una radicale inversione delle politiche degli ultimi cinquant’anni, per la rottura di un altro status quo (quello neoliberale). Cioè non quello in gioco nelle elezioni di giovedì. Ma resta il fatto che l’esercito di Corbyn attendeva lo sfidante nel luogo sbagliato.
Al di là delle personali incertezze di Jeremy Corbyn, va comunque detto che i tories erano posizionati meglio come Brexiter e i Libdem erano più credibili come europeisti. Johnson ha inteso meglio di tutti che la working class (che nel referendum si era espressa in maniera massiccia per il leave) stava vivendo i tre anni di tentennamento di Westminster come un tradimento della volontà popolare. L’esproprio della sua sovranità, oltretutto in un Paese che raramente ricorre allo strumento referendario. E infatti se andiamo ad analizzare i flussi nei collegi elettorali, sono proprio quelli che avevano votato massicciamente per la Brexit che hanno mollato Corbyn per Johnson; mentre gran parte dei ricchi collegi londinesi non hanno votato per Bojo.

È molto difficile pensare che nella depressa Inghilterra settentrionale le politiche sociali e fortemente redistributive della piattaforma di Corbyn spaventassero elettori che ne sarebbero stati in teoria beneficiati. È più probabile che essi restassero invece convinti che fossero stati i “perfidi eurocrati di Bruxelles” ad aver sottratto loro, dopo i posti di lavoro andati oltremare (magari in Irlanda, in Portogallo o in Ungheria), anche il diritto di decidere del loro destino in un referendum.

Sia con Theresa May sia con David Cameron (l’artefice del referendum), la Brexit rappresentava la spina nel fianco dei Conservatori. A Johnson va l’indubbio merito di averla trasformata nel punto critico degli avversari. Questo gli ha conferito la vittoria, un margine di tempo e un numero ampio di seggi a Westminster. Ma lui, le sue idee, le sue politiche saranno messe alla prova in un Regno Unito (fino a quando?) già fuori dall’Unione, un Paese diverso da quello in cui ha vinto, dove l’aver consentito di attuare il “leave” non sarà, da solo, sufficiente per governare il Paese.




 
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