Carlo Nordio
​Carlo Nordio

Oltre il caso Italia Viva/ Soldi e partiti, tutti i rischi del populismo giudiziario

di ​Carlo Nordio
4 Minuti di Lettura
Venerdì 13 Dicembre 2019, 00:15
Nella sua appassionata apologia al Senato, Matteo Renzi ha citato il noto ammonimento dell’onorevole Moro di quarant’ anni fa, che la Dc non si sarebbe fatta processare in piazza. Questa frase peraltro non ha portato fortuna né al suo autore né al suo partito, travolto il primo dall’odio delle Br e il secondo dagli scandali di tangentopoli. Ora, Renzi non è Moro, Italia Viva non è la Democrazia Cristiana, e il terrorismo è finito. Il paragone con Moro, finisce dunque qui.

Al netto di questa rievocazione forse troppo audace, l’energica reazione di Renzi contiene un’aspra critica all’uso improprio delle indagini giudiziarie, intese anche come arma per estromettere gli avversari che non si riescono a battere con le elezioni. Ed infatti l’ex premier ha lamentato le ripetute violazioni del segreto d’ufficio, l’uso disinvolto delle intercettazioni e delle perquisizioni, e più in generale la pretesa dei giudici di «decidere che cosa è un partito e cosa no».

Insomma, un attacco in piena regola contro quella che da venticinque anni viene denunciata come un’indebita invasione delle toghe nel campo della politica. Un critico severo potrebbe domandare a Renzi che cosa abbia fatto, quando ne aveva le possibilità, per rimediare a questa anomalia.

Una anomalia che su queste pagine denunciamo da anni. Ma sarebbe polemica sterile. Più importante invece è considerare i due punti che lui ha trattato: il finanziamento dei partiti e i limiti della magistratura nel valutarne la provenienza.

Il primo punto può riassumersi così: poiché i partiti, anche dopo la cura dimagrante di tangentopoli, sono pur sempre organizzazioni costose, dove possono, o devono, cercare le necessarie risorse? Durante la prima Repubblica si era creduto di risolvere il problema finanziando i partiti in proporzione alla loro rappresentanza elettorale. Ma i contribuiti clandestini erano aumentati, fino provocare la cosiddetta “Rivoluzione giudiziaria” di Mani Pulite. E da allora la nuova etica giustizialista introdusse il concetto che la politica, essenzialmente sporca e vorace, deve essere tenuta sotto tutela dalle Procure. L’errore, o meglio la viltà della politica fu di allinearsi supinamente a questo pregiudizio giacobino, un po’ per paura di una buona informazione di garanzia, un po’ nella segreta speranza cha la disgrazia toccasse a uno scomodo concorrente.

Di più: la contribuzione privata ai partiti, ancorché elargita in modo trasparente e legale, fu vista come un sintomo di subdola ambiguità e di inconfessabili intrighi. Ed è questa la prima recriminazione di Renzi: i soldi ricevuti per sovvenzionare le sue iniziative sono tutti - lui sostiene - pubblici e certificati. E poiché fino ad ora non vi è prova contraria, la sua argomentazione è sacrosanta: tuttavia viene vista con diffidenza perché, come sI è detto, è minata dal pregiudizio di una qualche potenziale e innominabile cointeressenza.

E questo ci porta al secondo punto. In che limiti la magistratura può sindacare questi contributi? La risposta dovrebbe essere semplice: nei limiti del rispetto della legge penale. Ma questi limiti vengono oltrepassati se il magistrato si arroga il diritto di valutare, senza elementi specifici che rivelino una frode, quale sia la valenza politica di una Fondazione. Perché, laddove si ammettesse questa potestà, l’invasione del potere giudiziario nel campo legislativo sarebbe completa e insindacabile, in quanto ogni Procura detterebbe i criteri di individuazione di quegli strumenti associativi, previsti dall’articolo 49 della Costituzione, che sono i partiti.

Insomma la Giurisdizione oltre a reprimere la patologia della politica quando i suoi esponenti commettono un reato, dovrebbe anche definirne la fisiologia quando i suoi aspiranti decidono di unirsi in un programma comune. Così attribuendosi, in definitiva, il compito di stabilire chi può fare politica e come deve organizzarsi per poterla fare. Un’eresia che sconcerterebbe non solo Montesquieu, ma qualsiasi persona di buon senso.

Ora vedremo cosa faranno i nostri reggitori. Se capiranno questo problema che, indipendentemente dal destino giudiziario di Renzi, li riguarda tutti, e se avranno il coraggio di affrontarlo e la forza di risolverlo, potranno iniziare a riappropriarsi di quelle prerogative tipiche di uno Stato contrassegnato dalla divisione dei poteri. Se invece ancora una volta si ripareranno dietro l’ossequio formale all’indipendenza della magistratura per mascherare la propria inerzia subalterna alle toghe, picconerà ulteriormente quel poco che resta del nostro Stato di diritto, e alimenterà quella generalizzata sfiducia che da tempo allontana i cittadini dalle istituzioni e dalle urne.
© RIPRODUZIONE RISERVATA