Omicidio Pecorelli, sparite le prove della nuova inchiesta: non si trovano 4 proiettili

Omicidio Pecorelli, sparite le prove della nuova inchiesta: non si trovano 4 proiettili
di Italo Carmignani e Alvaro Fiorucci
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Giovedì 5 Dicembre 2019, 00:48 - Ultimo aggiornamento: 14:36

Il giallo nel giallo pesca nel passato e racconta il presente: i quattro proiettili che il 20 marzo 1979 uccisero a Roma il giornalista Mino Pecorelli, depositati nel magazzino dei corpi di reato del Tribunale di Perugia, non ci sono più. Li cercano da mesi addetti e agenti della Digos. Ma niente, sono introvabili. Li ha richiesti la Procura della Repubblica di Roma, ufficio del procuratore aggiunto Francesco Caporale, per confrontarli con le caratteristiche di una pistola sequestrata a Monza nel 1995 e valutarne quindi l’eventuale compatibilità. Il motivo? La consulenza balistica è stata decisa dopo la recente riapertura dell’inchiesta sull’agguato di via Orazio e che ora, dunque, rischia di saltare. E il cold case avrebbe un interrogativo in più e una risposta in meno. 

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LE SEDI
Ma che c’entra Perugia con la pistola di Monza? Le pallottole “Gevelot” calibro 7,65 sono arrivate negli anni ’90 con il trasferimento a Perugia del fascicolo delle indagini sull’assassinio del direttore di “OP”. Il processo si tenne nel carcere di Capanne a Perugia adattato ad aula bunker. Sul banco degli imputati, il sette volte presidente del consiglio dei ministri Giulio Andreotti, l’ex senatore Claudio Vitalone (è per il coinvolgimento del magistrato romano che, per competenza, il procedimento arrivò a Perugia), i mafiosi Gaetano Badalamenti, Pippo Calò e Angelino La Barbera e l’ex Nar della banda della Magliana, Massino Carminati.

Tutti assolti con formula piena e sentenza definitiva. Fine? No, dopo quarant’anni su input di un’inchiesta giornalistica di Raffaella Fanelli e con la formalizzazione di una richiesta di Rosita Pecorelli, sorella del giornalista ucciso, assistita dall’avvocato Walter Biscotti, nel 2019 l’inchiesta è stata riaperta dalla magistratura capitolina. Sotto la lente degli inquirenti il sequestro di una pistola calibro 7,65 e di altre armi avvenuto a Cologno Monzese nel 1995. Nell’operazione rimase coinvolto l’ex Nar, Domenico Magnetta amico e sodale di Massimo Carminati. Del sequestro del 1995 non furono informati i pm perugini. Di Domenico Magnetta (ora speaker di una radio) ha però parlato l’ex terrorista di Avanguardia Nazionale Vincenzo Vinciguerra.

Nel 1992 ai magistrati di Venezia ha raccontato di aver saputo in carcere da Adriano Thilger, esponente della destra eversiva, che l’arma del delitto Pecorelli era stata consegnata, appunto a Magnetta. I due lo smentiranno. Spiega Vincenzo Vinciguerra il primo luglio 1992: «Confermo le dichiarazioni che ho reso al pm Guido Salvini circa la confidenza di Adriano Tilgher relativa al possesso di Domenico Magnetta di un’arma che, a suo dire, era stata utilizzata per commettere l’omicidio Pecorelli. Prendo atto che dalla consulenza tecnica sulle armi consegnate dal Magnetta (non sono quelle sequestrate a Monza, ma si riferisce alla consegna spontanea del 1983, ndr), non vi è quella utilizzata per l’omicidio. Non  mi stupisce. Ritengo infatti che Magnetta abbia utilizzato l’informazione come strumento di pressione e che poi sia stato convinto a non consegnare l’arma».

Tilgher e Domenico Magnetta davanti ai pm Fausto Cardella e Alessandro Cannevale un anno dopo continuano a negare. Dice Tilgher: «Non ho mai parlato con Vinciguerra di un’arma in possesso di Magnetta. Questa circostanza è per me del tutto nuova. Ho appreso della consegna delle armi di Magnetta nell’ambito del processo nel quale eravamo coimputati». E Magnetta: «Per quello che concerne le dichiarazioni di Vinciguerra, delle quali mi viene data lettura, posso dire che non corrispondono a verità: non ho mai posseduto un’arma». Poi però c’è stato il sequestro di Cologno Monzese con una 7,65 nel piccolo arsenale nascosto in una Dyane. E il confronto tra pistola e proiettili. Per ora impossibile.

Italo Carmignani Alvaro Fiorucci

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