L'Università della Tuscia ora cerca la vita nello spazio

L'Università della Tuscia ora cerca la vita nello spazio
di Enzo Vitale
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Martedì 3 Dicembre 2019, 21:05 - Ultimo aggiornamento: 4 Dicembre, 11:40
Una disciplina che è vecchia quanto l’uomo e un’altra che ha compiuto da poco solo 15 anni: Astronomia e Astrobiologia, due scienze che ora vanno a braccetto. Raffaele Saladino, di vocazione chimico organico, è professore all’Università della Tuscia ma anche presidente della Società Italiana di Astrobiologia (Sia). Grazie a lui ed altri suoi colleghi è nata un’altra branca, per così dire sperimentale, ovvero Iai (Istituto Astrobiologico Italiano), una rete di laboratori nazionali che rappresenta l’unica struttura nazionale di ricerca e divulgazione ad occuparsi esclusivamente di questo tema.

(Il professor Raffaele Saladino di Unitus)

Professor Saladino, è vero che Viterbo ha favorito questa iniziativa?
«Diciamo che le strutture di governance dello IAI saranno elette nel primo congresso che si terrà proprio presso l’Università della Tuscia di Viterbo il prossimo anno, fino al quel momento a presiederlo sarò io in quanto presidente della Sia».

Qual è lo scopo?
«E’ quello di creare un laboratorio diffuso sul territorio per studiare in modo multidisciplinare i principali temi della astrobiologia. Nella fase della sua fondazione consta di 14 laboratori di ricerca appartenenti all’università, al CNR, e all’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e specializzati in numerose aree di ricerca, dalla biologia molecolare e degli estremofili alla fisica e alla astrofisica, passando attraverso l’astrochimica, la radiobiologia, la chimica prebiotica e organica, la chimica generale, la chimica teorica l’ingegneria, la geologia e geochimica e la modellistica dedicata agli studi di abitabilità dei pianeti al di fuori del Sistema solare».

Quale, invece, il ruolo di Unitus?
«L’Università della Tuscia ha da sempre svolto un ruolo importante nello sviluppo della astrobiologia italiana. Assieme alla Sapienza, al CNR di Roma e Napoli, alle Università di Firenze, Trento, Catania, alla Federico II di Napoli, e all’INAF osservatorio astronomico prima di Napoli e quindi di Firenze, ha fondato la SIA. La Tuscia è responsabile dello svolgimento di numerosi progetti di astrobiologia finanziati dal MIUR, dall’ASI e dall’ESA, ha partecipato allo sviluppo dei progetti di chimica prebiotica del NASA Astrobiology Institue NAI, ed ha un accordo quadro con il Joint Institute of Nuclear Research (JINR) presso il quale si svolgono esperimenti per studiare l’effetto del vento solare e della radiazione cosmica sull’origine della vita».

Ma professore, di cosa si occupa l’astrobiologo e come ci si diventa?
«E’ una figura che studia l’origine, la presenza e la persistenza della vita sulla Terra e nello spazio. In Italia, per un giovane, vi sono tanti percorsi diversi per diventare astrobiologo. Si può affrontare l’astrobiologia partendo da una solida preparazione nell’ambito fisico e astrofisico, oppure arrivarci dalla biologia, dalle scienze naturali, dalla ingegneria o dalla chimica. Qualunque sia il percorso seguito, l’astrobiologia richiede la curiosità e la passione di estendere le proprie conoscenze a più ambiti disciplinari, una sorta di torre di Babele dove con grande pazienza ed applicazione tutti riescono finalmente a comprendere il linguaggio degli altri creando una sinergia senza precedenti, quella necessaria per comprendere l’origine e il futuro della vita».

E lei perchè si è avvicinato a questa singolare disciplina?
«Assieme al professor Ernesto di Mauro, Rodolfo Negri e Giovanna Costanzo, allora alla Università La Sapienza, affrontammo uno studio nell’ambito del Progetto Genoma Umano, per chiarire il meccanismo di sequenziamento del DNA con un semplice reagente, la formammide. Non conoscevamo ancora la chimica prebiotica e l’astrobiologia ma pubblicammo un articolo nel 2001 su di una rivista Bioorganic & Medicinal Chemistry poco letta in quei settori. Oggi il nostro “modello della formammide” è una tra i più seguiti e riconosciuti a livello mondiale».
Fondamentale, dunque, la multidisciplinarietà?
«Esatto, serve ad abbattere i limiti e le barriere culturali, serve a non chiudersi in un’unica scatola di sapere ed avere sempre la curiosità di leggere ed interessarsi di tutto il resto, perché per capire l’origine della vita è necessario conoscere infiniti linguaggi».

enzo.vitale@ilmessaggero.it
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