Romano Prodi
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L’Italia si muova/ Industria, strategia di Stato senza tornare all’Iri

di Romano Prodi
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Domenica 1 Dicembre 2019, 00:00
Le crisi dell’Ilva e dell’Alitalia non solo hanno messo in luce le drammatiche difficoltà in cui versano due componenti fondamentali del sistema economico italiano, ma ci obbligano a riesaminare l’intera politica industriale del nostro Paese. L’Italia si trova infatti nella singolare situazione di essere ancora il secondo Paese manifatturiero d’Europa ma di non possedere quasi nessuna grande impresa industriale e di subire un processo di progressivo indebolimento nei settori che, come le banche e la finanza, costituiscono la garanzia e la difesa di ogni sistema economico. 

Negli ultimi anni non solo abbiamo assistito al passaggio sotto controllo straniero di Ilva, Fiat, Pirelli, Magneti-Marelli ma anche all’emigrazione della proprietà e dei centri decisionali delle aziende simbolo del Made in Italy, come quelle dell’alta moda e della meccanica. Non possediamo inoltre alcuno strumento per impedire che il processo prosegua fino a comprendere gli ultimi baluardi delle strutture finanziarie e delle banche italiane, nelle quali il crescente ruolo dei fondi di investimento esteri ha reso la nostra presenza sempre più fragile. 

È ad esempio il caso dell’Unicredit, seconda banca italiana per dimensione e punto di riferimento insostituibile del sistema finanziario italiano.
In essa i fondi stranieri sono ora di gran lunga prevalenti rispetto alle fondazioni che ne erano state l’azionista di riferimento nel momento della sua formazione.
Si potrebbe liquidare il problema dicendo che tutto questo è una naturale conseguenza della globalizzazione, ma il fatto che non vi sia un paragonabile flusso di nostri acquisti all’estero ci impedisce di trarre questa consolante conclusione.

Per evitare di rimanere completamente nudi occorre quindi una nuova politica industriale. Il Ministro Patuanelli ha opportunamente espresso quest’urgenza ma la sua proposta di ricostruire l’Iri non può essere una soluzione. Non solo perché questa decisione sarebbe contraria alle regole della concorrenza europea, ma anche perché ci riporterebbe alla passata commistione fra politica e affari che è stata alla base del suo scioglimento. Il problema sollevato da Patuanelli esige tuttavia una risposta, anche perché la velocità e l’intensità del movimento dei capitali si fa ancora più forte in previsione della Brexit. Parigi, sotto la spinta del governo francese, e Amsterdam, con agevolazioni fiscali non facilmente compatibili con le regole europee, stanno infatti esercitando una sistematica attrazione di imprese nel loro circuito nazionale, in modo da essere protagonisti assoluti della riallocazione delle sedi decisionali delle grandi imprese europee.

Se lo Stato imprenditore è definitivamente tramontato, non lo è certo il suo ruolo nell’economia. Una seria politica industriale deve prevedere, come fanno i grandi Paesi europei a partire dalla Francia, un’indispensabile presenza dello Stato come azionista stabile, seppure di minoranza, in imprese di particolare importanza e significato. Uno Stato non responsabile della gestione, ma controllore dei destini di lungo periodo dell’impresa. 
Si tratta di una soluzione semplice e che in Italia funziona già in alcuni casi: non possiamo infatti dimenticare che questo è il regime in vigore nell’Enel e nell’Eni, in Leonardo e in poche altre aziende in grado di giocare un ruolo significativo nella concorrenza globale. 

Si può a questo punto obiettare che, mantenendo un azionariato pubblico, si rinuncia a parte degli introiti della privatizzazione. Introiti che, pur non essendo in grado di dare un contributo decisivo alla diminuzione del nostro debito, contribuiscono tuttavia al suo contenimento. 
Per rendere efficace il ruolo di un azionista stabile, ancorché in minoranza, viene tuttavia in molti Stati adottato il cosiddetto “voto plurimo”, attraverso il quale tale azionista (sia esso pubblico o privato) ha diritto di esprimere un voto il cui peso, nelle decisioni aziendali, risulta superiore al numero di azioni possedute. 
Nel settore pubblico questo strumento deve essere manovrato con cura, attraverso una holding di partecipazione guidata da persone non solo addestrate nelle discipline finanziarie, ma capaci di possedere una visione strategica di lungo periodo. 

Dovrà essere inoltre materia di approfondimento dove collocare questo strumento di politica industriale. Diverse opzioni sono a disposizione per mettere in atto questo obiettivo: la scelta può concretizzarsi attraverso una subholding della Cassa Depositi e Prestiti o con strumenti alternativi. Quanto ha messo in atto la Francia in una serie di settori, a cominciare dall’industria automobilistica, è certamente un sicuro punto di riferimento. 
Naturalmente queste riflessioni riguardano un numero ristretto di strutture produttive e non esauriscono la gamma delle azioni necessarie per una nuova politica industriale: creare nuove imprese, rafforzare le piccole e medie aziende, attrarre investimenti dall’estero, incoraggiare i processi innovativi, migliorare il funzionamento della Pubblica Amministrazione e elevare il livello delle nostre risorse umane e delle infrastrutture materiali a servizio del nostro sistema produttivo. 
Tutto questo è ovviamente necessario ma è altrettanto necessario ricordare che un Paese senza grandi imprese e senza robuste strutture finanziarie è destinato a finire male. E l’Italia è purtroppo incamminata in questa direzione. 
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