Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

​Soldi alla politica/ Finanziamenti come peccato, quel tabù da rimuovere

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 28 Novembre 2019, 00:04 - Ultimo aggiornamento: 29 Novembre, 00:37
Quando si parla di giustizia, in questo Paese, non sembrano esistere le mezze misure. C’è un indubbio e pervasivo clima giustizialista che pervade tutto e che rende non solo l’aria irrespirabile e la vita impossibile ai più. Gli ultimi esempi di questa deriva ce lo fornisce per ultima la vicenda politico-giudiziaria scaturita da “Open”, la fondazione vicina a Matteo Renzi che ha finanziato gran parte della sua attività politica, pur non essendo formalmente un partito. 

Al netto dei suoi sviluppi, la vicenda ci dà la possibilità di riflettere su un tema dirimente per la qualità della democrazia nel nostro Paese, vale a dire quello di come si debba e si possa finanziare l’attività dei partiti o più in generale di chi fa politica. 

Ormai 25 anni fa, nel 1993, uno storico referendum popolare sancì, con l’appoggio di oltre il 90% dei votanti, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Come in tanti altri casi, il Palazzo ci impiegò 20 anni per recepire questa decisione e solo nel 2014, durante il governo Letta, venne definitivamente approvata la legge che formalmente aboliva il finanziamento pubblico ai partiti. È una legge tuttora in vigore, che solo formalmente, appunto abolisce questa forma di finanziamento, ma che di fatto lo ripropone in forme diverse. 

Chi finanzia i partiti ha infatti diritto a sconti di imposta attraverso specifiche detrazioni (finanziate dalla fiscalità generale) oppure può scegliere di destinare il proprio 2 per mille, invece che al finanziamento della spesa pubblica, a uno specifico partito.

In questo modo, la legge ha comunque ridotto di gran lunga le risorse a disposizione dei partiti, peraltro inserendo dei criteri di democraticità interna per avere accesso a questo canale. Di fronte a questa prospettiva, cosa può fare chi volesse cominciare a fare politica e non potesse auto-finanziare la propria attività? Non resterebbe che chiedere soldi e risorse a chi crede nel suo progetto politico. 

Questo deve essere chiaro: il finanziamento, pubblico o privato, dell’attività politica non può essere considerato un crimine, paradosso tutto italiano. Anzi, chiunque abbia fatto un minimo di attività politica militante sa di quante risorse, umane ma anche finanziarie, ci sia necessità. Certo, il tutto deve essere effettuato nella massima trasparenza: gli elettori e l’opinione pubblica più in generale hanno il sacrosanto diritto di sapere chi ha finanziato che cosa, per poter poi valutare se questa attività di finanziamento, o chiamiamola pure di lobby, abbia influenzato o meno l’orientamento del partito oppure no. Ma criminalizzare il finanziamento, pubblico o privato che sia, ha in realtà solo effetti negativi e distorsivi. 

Per effetto di un clamoroso paradosso rischia di incentivare il finanziamento illecito. Rendere illegale una attività non la cancella di certo ma la consegna al sommerso. Rendere illegale il finanziamento privato ai partiti consegnerebbe il controllo dell’attività politica a gruppi di potere nascosti e potenti. Cosa che è sempre successa, anche recentemente: si tratti di corruzione privata o di fondi da Paesi stranieri. A maggior ragione, il pericolo aumenterebbe tagliando altri e più trasparenti canali di finanziamento. 

Non solo: secondariamente, tale criminalizzazione permetterebbe di fare attività politica solo a chi disponesse di ingenti risorse interne. Un elitarismo malato della democrazia che ci porterebbe indietro di decenni o di secoli. È arrivato il momento di dire che la politica deve poter contare su risorse pubbliche e private perché la democrazia possa dirsi totalmente compiuta. Forse non può farlo la politica. Ma almeno il mondo intellettuale non può sottrarsi a ragionamenti che sono contrari alla demagogia giustizialista imperante, nella società come in politica. Certo, il tutto dovrebbe essere fatto nella massima trasparenza. 

Non bisogna avere paura di ammettere che esiste ancora il finanziamento pubblico ai partiti, né avere paura di ammettere che forse è fin troppo poco generoso, senza naturalmente tornare agli abusi precedenti. Allo stesso tempo, perché vietare la possibilità che privati cittadini - o imprese o anche grandi gruppi industriali - possano finanziare l’attività politica di qualcuno? 

Chi avesse avuto la fortuna di osservare da vicino la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008, potrebbe testimoniare come il contributo economico di ognuno, singolo cittadino o impresa, abbia contribuito alla luce del sole a rendere la sua impresa possibile. In ultimo, criminalizzare il finanziamento della politica significa limitare l’offerta democratica: un vero e proprio regalo a quella casta che invece, solo a parole, si vorrebbe attaccare. Sono i cortocircuiti del populismo: promettere più democrazia per darne alla fine di meno.
 
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