Emilia Clarke: «Ho avuto due aneurismi: la mia ambizione mi ha salvato la vita»

Emilia Clarke: «Ho avuto due aneurismi: la mia ambizione mi ha salvato la vita»
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Martedì 26 Novembre 2019, 12:27

Una venticinquenne che finisce a letto con tutti gli uomini sbagliati, arriva in ritardo a tutti gli appuntamenti, litiga con la madre (interpretata da Emma Thompson, che è anche autrice della sceneggiatura) e ha un lavoro da elfo in un negozio di articoli natalizi. Si chiama Kate, è la protagonista di Last Christmas (dall’omonimo pezzo di George Michael dei Wham!, che firmano tutta la colonna sonora), una commedia romantica in sala dal 19 dicembre, e a darle il volto è Emilia Clarke, la leggendaria Daenerys del Trono di Spade, che a Vanity Fair – su cui occupa la copertina del numero in edicola da mercoledì 27 novembre – spiega l’importanza personale di interpretare questo tipo di personaggio, in questo preciso momento della sua vita.

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Sullo sfondo, l’episodio che ha svelato solo pochi mesi fa in un saggio sul New Yorker: i due aneurismi cerebrali di cui ha sofferto durante le riprese della serie, e la decisione di tornare, entrambe le volte, subito sul set. «Prima di fare Il Trono di Spade», racconta l’attrice a Vanity Fair, «ero in uno stato di caos interiore abbastanza simile a quello di Kate. Ossia, quel momento della vita in cui ti guardi allo specchio e dici: “E cos’è che dovrei fare di me stessa ora?”. L’età che va dai venti ai trenta è quando ti rendi conto tutto d’un tratto di non essere più un adolescente, ma decisamente neanche un adulto. Ti vuoi divertire e non capisci cosa siano le responsabilità. Mi è piaciuto tantissimo potermi calare nel ruolo di qualcuno che non ha bisogno di avere sempre ragione o di essere saggia, che non ha bisogno di essere bella, può essere incasinata e maleducata, si può annoiare da morire».

 

 


Una fase della vita che a lei, nel bene e nel male, è stata negata. «Io sono stata travolta dal peso di avere una grandissima responsabilità verso la serie, ma sentivo anche di essere una giovane donna a cui era stata data una grande occasione. Sapevo che era un onore e un privilegio poter essere lì e non volevo sprecarlo, non volevo distruggere con la foga e la confusione dei vent’anni una cosa così grande. Non volevo deludere gli altri e non volevo deludere me stessa. Il saggio è stato terapeutico, amo scrivere. Ma questo non significa che io non abbia comunque vissuto il lutto di una gioventù non vissuta. All’inizio del mio lavoro pensavo “cavolo, dovrei essere lì fuori a divertirmi come gli altri: vento nei capelli, niente responsabilità, libertà totale”». Ma rinunciare alla grande occasione è un’opzione che non si è mai realmente posta, per via di un femminismo che, ne è certa, l’ha anche aiutata a superare la malattia. «Il senso di responsabilità è radicato nel mio Dna. Il mio monologo interiore, quando sono stata in ospedale, è sempre stato: “Non ho tempo per pensare a questioni di vita o di morte. Devo andare avanti. Devo tornare al lavoro”. Quel monologo non era un peso, era la mia motivazione. È da lì che viene la mia ambizione ed è al 100% la cosa che mi ha salvato la vita. Siamo così abituate a essere sminuite, le persone pensano che una non sia in grado di fare qualcosa a causa di un paio di tette. La sfida di voler dimostrare il contrario è stata la cosa che mi ha tenuto in vita».

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