Mario Ajello
Mario Ajello

Nuova fase rosso-gialla/L’illusione del Contratto per la sintesi impossibile

di Mario Ajello
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Lunedì 25 Novembre 2019, 00:34
C’era una volta la sinistra hegeliana. C’è ancora? Suvvia, andiamoci piano con i paroloni. E tuttavia vorrebbe esserci, in maniera ideale anzi immaginifica ma poi la prova empirica è un’altra cosa, una sorta d’improbabile hegelismo nel rilancio dell’alleanza rosso-gialla che fa Grillo e che fanno insieme a lui i massimi esponenti del Pd.
La logica è questa. Non basta essere quello che siamo - cioè due forze agli antipodi - ma occorre, e non solo per superare lo scoglio emiliano, gettare il cuore oltre l’ostacolo. Trovando una sintesi e lo strumento per esprimerla e per farla funzionare. 

Nel disegno di Grillo e di chi la pensa come lui, lo strumento è il Contratto di governo. Non sul modello di quello trascorso tra M5S e Lega, ossia l’assemblaggio di pezzi opposti di programma che coesistono ma non si parlano e non si danno una prospettiva comune. No, stavolta c’è l’aspirazione politico-culturale, per fare cose «alte e grandissime», di arrivare a una summa organica, perché «il vero è l’intero», come diceva Hegel. 
Il problema è che antitesi più antitesi non fa sintesi. Come è facile constatare (basta un po’ di realismo), i contenuti politici e i punti programmatici tra M5S e Pd sono, al di là dei desideri e dei bisogni, inconciliabili.

La realtà ha fatto vedere che quando i nodi vengono al pettine - pensiamo al caso Ilva e a quello Alitalia, al tema generale della reindustrializzazione e al tema dirimente della giustizia con l’esiziale forzatura sulla prescrizione infinita e sui processi lunghi - l’aspirazione hegeliana, sia pure maccheronicamente intesa, s’infrange su reciproche impossibilità. Ci si rende conto cioè che i pilastri contrattuali su cui si vorrebbe costruire un’altra Italia non reggono. La debolezza della manovra economica, sia pure fatta in emergenza, ne è una riprova. E lo sono anche la divisione sullo ius culturae, le distanze siderali sul salario minimo, per non dire dell’impossibilità di uscire dalla doppia ipoteca anti-crescita rappresentata da quota cento e reddito di cittadinanza.

Così, la trovata del Contratto rischia di essere più che altro un trucco dialettico. E il concentrato di un ottimismo della volontà - ossia la speranza di raddrizzare la baracca di un’alleanza e di trovare una bussola per il Paese - e di un pessimismo della ragione, perché nessuno può non vedere l’incongruenza che esiste in questa operazione. La quale può a stento funzionare nel tran tran quotidiano e come patto di potere, anche perché M5S è spappolato e terrorizzato dalle urne e il Pd è ancora alla ricerca del suo ubi consistam post-comunista, ma manca di quella interna razionalità che è l’unica condizione per fare davvero grandi cose. Più che altro, il presunto professionismo politico del Pd (a cui ci si affida sulla base del solito complesso dei migliori della sinistra, che alla prova dei fatti fa spesso flop) miscelato all’istinto di sopravvivenza dei 5 stelle dovrebbero costituire il collante del nuovo Contratto.

Quanto alla «visione comune», formula magica invocata in queste ore, ci vorranno chissà quali acrobazie per conciliare un partito che cerca nella rassicurazione ex Pci il suo futuro e un movimento che è lievitato sulla retorica del No e non riesce ad emanciparsi da quell’imprinting. Il neo-contrattualismo grillo-dem si scontra poi con due condizioni che lo possono vanificare. La prima è che Grillo investe Di Maio, ossia il meno propenso a questo tipo di percorso, a guidarlo. La seconda è che se per gestire il Contratto giallo-verde bastava un notaio o un «avvocato del popolo», e quello fu il Conte 1, per sviluppare una fusione di vedute e di progetti serve un leader politico vero e proprio.

Capace di mettere ordine nel big bang del grillismo - in cui si confondono iper-ambientalisti, iper-poltronisti, iper-antagonisti, iper-nostalgici dell’abbraccio con la Lega, iper-rousseauiani e iper-tutto - per poi portare questa materia incandescente nel mare magnum della sinistra dem, quasi altrettanto agitato nelle sue traversie identitarie. Conte non sembra avere al momento i requisiti professionali e d’esperienza per intestarsi un’operazione così complessa. La quale, per essere all’altezza della propria ambizione, deve estendersi all’intero territorio nazionale e dare risposte autentiche alle sue varie parti. Ma proprio in questo c’è un altro aspetto della fragilità del neo-contrattualismo. Perché si dovrebbe comporre di due forze che hanno abbandonato il Mezzogiorno. E non può esserci sintesi che non coinvolga l’insieme del Paese.

M5S, da movimento di protesta che sulle esigenze del Sud ha costruito le sue fortune fino a diventare referente quasi unico di quella parte d’Italia, s’è trasformato in un partito assente o galleggiante sulle risposte che non ha saputo dare a quelle terre particolarmente bisognose di buona politica.
E in questo vuoto di rappresentanza, anche il Pd vive la sua insostenibile leggerezza dell’essere che contribuisce al dramma del Meridione. E dunque, l’illusione di un Contratto che non fa sintesi è ad alto rischio di velleitarismo. La ragion pratica, insieme alla ragion pura, dice invece che all’Italia servono al massimo grado lucidità di giudizio e pronto intervento.

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