Secondo la sentenza del tribunale del lavoro, il controllo disciplinare dell'azienda non può spingersi alle comunicazioni private del lavoratore, disponendo il reintegro dell'operaio. Il giudice, prendendo spunto da un orientamento della Cassazione, ha distinto tra espressioni lesive diffuse attraverso canali pubblici - come i social network -, e i canali privati. La sentenza richiama l'articolo 15 della Costituzione, che definisce inviolabili la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione.
Il lavoratore - che deciderà se accettare il reintegro o un indennizzo alternativo - non ha mai negato d'essere l'autore del messaggio vocale ma ha precisato di aver insultato il superiore in un contesto di cerchia ristretta di persone. Il tribunale ha ritenuto che un giudizio lesivo che non viene reso pubblico, non può essere lo strumento con il quale il datore di lavoro licenzia il dipendente, nonostante l'offesa. Dopo essere stato licenziato, trovando ingiusto il provvedimento, il lavoratore si era rivolto al sindacato Cisl di Prato, città dove abita, ed è stato assistito legalmente dalla Femca Cisl. «Questa sentenza ha un valore straordinario perché sancisce il diritto alla privacy e disconnessione del lavoratore in un mondo del lavoro sempre più connesso», spiega Mirko Zacchei, segretario della Femca Cisl di Prato.
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