«Nel 1986 – ricorda Pfaff – Maradona era veramente un giocatore di un altro pianeta, anzi stava all’apogeo. Improvvisamente lo vedevi dove non te lo aspettavi. Immarcabile. Quattro anni prima in Spagna no. Lì l’avevamo anche battuto nel primo turno. In Messico invece... Mai visto né prima né dopo uno così».
Ma Messi? «Con tutto il rispetto, e vi assicuro che lo rispetto molto, ancora non c’è paragone. E forse non ci sarà mai». È ottimista Pfaff. «Anche il resto dell’Argentina di oggi mi sembra inferiore a quella del 1986. Sì, c’è Di Maria che mi piace molto. Ci sarebbe Aguero, che però non sta bene. Ma gli altri? Io mi ricordo i Valdano, gli Enrique, i Burruchaga, i Batista. Giocavano da squadra, questi mi sembrano solo un gruppo che aspetta l’exploit di Messi».
Ma c’è un’altra ragione che spinge Pfaff a credere nella grande impresa: «La maggior parte dei miei compagni di allora giocava in Belgio, quasi nessuno aveva esperienza internazionale. Ora invece stanno quasi tutti all’estero, nei campionati più importanti, nelle squadre più forti. Hanno più fiducia, non provano nessun complesso di inferiorità. Poi, il modo di stare in campo. Wilmots ha dato alla squadra una fisionomia precisa, un’idea di gioco che prescinde dagli stessi giocatori, che pure sono bravi, abbiamo delle stelle anche noi adesso. Hazard e non solo». Il gioco che, secondo Pfaff, manca all’Argentina. «Ma anche al Brasile. Un’altra squadra che aspetta soltanto le prodezze di un solo giocatore, Neymar. Per questo non credo alla finale Brasile-Argentina, di cui già tutti parlano». Oltre che un pronostico, però, sembra un atto di fede.
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