“Il Leone e la Montagna”, per la prima volta a Roma reperti dagli scavi italiani in Sudan

“Il Leone e la Montagna”, per la prima volta a Roma reperti dagli scavi italiani in Sudan
di Elena Panarella e Rossella Fabiani
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Domenica 10 Novembre 2019, 16:44
A Roma, il museo di scultura antica “Giovanni Barracco” ospita la mostra “Il leone e la montagna, scavi italiani in Sudan” curata dell’egittologo Emanuele Ciampini, professore all’Università di Venezia Ca’ Foscari. L’evento è davvero speciale perché sono esposti reperti che lasciano il Sudan per la prima volta e che provengono dallo scavo dell’antica città di Napata, uno dei più importanti siti archeologici del Sudan. Pur nella loro fragilità e frammentarietà, questi reperti sono in grado di fornire un quadro quanto più esauriente e aggiornato possibile dell’area cerimoniale di epoca meroitica, fiorita a Napata intorno al Primo secolo dopo Cristo grazie anche a un corredo di testi, immagini e ricostruzioni grafiche prodotto dagli archeologi della missione italiana che è attiva da quasi cinquant’anni nel sito del Jebel Barkal, patrimonio mondiale Unesco. Gli oggetti in mostra accompagnano il visitatore alla scoperta di un mondo ancora poco noto e di una cultura che fa da ponte tra Africa, Egitto e Mediterraneo.

L’egittologo Emanuele Ciampini, allievo di Alessandro Roccati all’Università di Roma La Sapienza, è il direttore della missione di scavo a Jebel Barkal e insegna all’Università Ca’ Foscari di Venezia che sarà la seconda tappa della mostra “Il Leone e la Montagna”. I risultati delle campagne di scavo condotte a Jebel Barkal hanno radici profonde che affondano nel terreno della tradizione egittologica dell’Università di Roma “La Sapienza”. L’imponente montagna del Jebel Barkal, formata da arenaria, si erge su una larga ansa del Nilo a ridosso della IV cataratta dove il paesaggio risulta abbastanza pianeggiante e solcato soltanto dal corso del fiume. E il sito - che storicamente rappresenta il limite massimo della penetrazione egiziana in Nubia e fu scelto già a partire dalla XVIII dinastia come Ipetsuf, santuario originario, del dio Amon - ha restituito una straordinaria continuità di testimonianze archeologiche a partire dall’epoca faraonica, per giungere all’epoca napatea e meroitica.

E fu il professore Sergio Donadoni, direttore della missione archeologica in Egitto della “Sapienza” a scegliere nel 1970 nell’area archeologica del Jebel Barkal, presso l’attuale città di Karima, il luogo dove iniziare nuove ricerche di terreno, aprendo un cantiere di scavi in Sudan. Quattro anni prima una riunione dell’Unesco a Venezia lo aveva invitato ad estendere le operazioni che conduceva per salvare le antichità della Nubia destinate ad essere sommerse dalle acque del lago creato dalla grande diga di Assuan, dal territorio egiziano a quello sudanese, e Donadoni aveva lavorato per due anni a recuperare le pitture della chiesa di Sonqi Tino, aiutato da un team di esperti di cui faceva parte anche il professore Giuseppe Fanfoni. 

Quando il lago raggiunse il massimo livello, il governo sudanese che da poco aveva ottenuto l’indipendenza, chiese a Donadoni di continuare in Sudan gli studi che aveva condotto in diverse località lungo il Nilo egiziano. Iniziava allora una delle storie più illustri di una tradizione egittologica che ha contribuito a riportare alla luce una civiltà antica che tanto ha ancora da rivelare con i suoi reperti che oggi in parte si possono per la prima volta vedere al museo di scultura antica “Giovanni Barracco” (in corso Vittorio Emanuele II, di fronte alla chiesa di San Giovanni dei Fiorentini) con ingresso gratuito fino al 19 gennaio 2020 tutti i giorni (ad accezione del lunedì) dalle 9 alle 19. L’esposizione è promossa dall’assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali; sponsor Qatar-Sudan Archaeological Project, con il contributo tecnico di Ferrovie dello Stato Italiane. 
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