Michele Mariotti debutta al Teatro dell'Opera: «Suoni di guerra per il mio Idomeneo»

Il Maestro Michele Mariotti
di Simona Antonucci
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Martedì 29 Ottobre 2019, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 00:56

«Gli inizi? - dice Michele Mariotti - Con le bacchette che mi costruivo da solo rubando gli spiedini del barbecue e i tappi di champagne». E poi? «Poi è arrivato uno sgabello su cui mi arrampicavo e una radio fissa sul canale di musica classica. Quando ho cominciato a innervosirmi perché l’orchestra “on air” non seguiva il mio gesto, ho capito che da grande avrei voluto stare su un podio vero».

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Michele Mariotti, oggi, a 40 anni, è un celebrato direttore d’orchestra. Non più una giovane promessa, perché di promesse ne ha mantenute già tante, e non ancora un Maestro adulto all’apice della sua carriera: «In quell’elettrizzante momento della vita in cui i traguardi raggiunti e i sogni da realizzare sono in un sereno equilibrio», racconta Mariotti, fisico da sportivo e sguardo da poeta, durante le prove dell’Idomeneo, capolavoro di Mozart che segna il suo debutto al Teatro dell’Opera di Roma: regia di Robert Carsen, con immigrati e profughi della Comunità di Sant’Egidio.

Carsen: «Noi tutti come Orfeo stiamo al mondo per amare e morire»

Infanzia trascorsa dietro le quinte del Rossini Opera Festival, di cui il padre è stato ideatore e sovrintendente, studi umanistici e conservatorio a Pesaro, la sua città. Debutto a Salerno e, poco dopo, sipari spalancati dei teatri italiani, dal San Carlo alla Scala, e di tutto il mondo.

Tra il 2008 e il 2018 è stato direttore musicale del Comunale di Bologna. Ha debuttato al Festival di Salisburgo con
I due Foscari in forma di concerto. E nel 2019, oltre a Don Pasquale e La traviata a Parigi, I masnadieri alla Scala, Semiramide a Pesaro, si aspetta il suo esordio, l’8 novembre, al Costanzi.

Finalmente anche nella Capitale: lo desiderava?
«Eccome. La qualità dei progetti artistici qui è molto elevata. E con il direttore musicale Daniele Gatti ho un forte legame di amicizia. Quella che sto vivendo a Roma è un’esperienza preziosa, anche grazie a Carsen. La sua lettura non romantica mi ha stimolato nel ricercare contrasti sonori, dolcezza e violenza».

Lei ha avuto spesso al fianco grandi registi: oltre a Carsen, Vick, McVicar, Martone, Michieletto, e un mese fa, a Parigi, Simon Stone per una
Traviata innovativa, anche da un punto di vista musicale, osannata e sold out. Tutte forti personalità. Mai problemi?
«Direi che hanno tutti arricchito il mio lavoro. Sono professionisti che sul palco sanno ricostruire rapporti umani e storie credibili. E io voglio sentirmi coinvolto nei loro progetti. Dico con orgoglio che mi è capitato più volte, grazie alla regia, di cambiare la mia idea musicale. In Traviata per esempio, e ora con l’Idomeneo, sento il dovere di procedere, con l’orchestra, per vie parallele».

Su quale via accompagnerete il pubblico romano?
«Sarà un Idomeneo che parla di pace, proprio perché nasce in guerra. Lo spettacolo accende le luci sul potere delle armi, mettendo sotto accusa i regimi militari. A dar forza a questa lettura, sono stati chiamati in scena dei rifugiati, migranti, che si appoggiano alla comunità di Sant’Egidio. Insieme con i cantanti, saranno protagonisti».

E da un punto di vista musicale, che suono avrà la guerra?
«Accenti, colpi d’arco, sonorità taglienti. Gelide anche le note della festa, nell’intermezzo, perché in fondo è una festa di soldati. Inquietante».

Il mare è l’altro protagonista?
«Sì, nell’accompagnamento gli oceani sono onnipresenti».

Inevitabile un accenno ai muri? Ai confini chiusi?
«Le barriere sono inaccettabili in ogni settore. La cultura è libertà. La chiusura porta alla non conoscenza. Il mio lavoro è simbolo della collaborazione. Cosa sarebbe il mio braccio senza un’orchestra? Oggi, anche nel calcio, è così: un bravo portiere deve sapere anche muovere i piedi».

Dopo il Costanzi, un altro debutto romano, a Santa Cecilia con un concerto sinfonico. Un momento della carriera particolare?
«Non ho mai accelerato. Più che arrivare, bisogna puntare a rimanere. Passo dopo passo. E dicendo tanti no. Io ho amato tutte le cose che ho fatto. E non è una banalità. Ora per me è importante costruire un’identità sinfonica».

È stato fatto il suo nome per il Maggio Musicale, aldilà dei rumors, le piacerebbe, dopo Bologna, riavere un teatro?
«Sono nato in teatro e adoro lavorare in un teatro. Credo nell’allenamento quotidiano con l’orchestra, nel costruire insieme il rapporto con il pubblico. Da piccolo, quando mia mamma stava molto male, andavo ad assistere alle prove per sognare, trovare sollievo, imparare storie e melodie nuove. Il teatro deve rappresentare una casa per i suoi cittadini, come una scuola o un ospedale».

A Parigi è uno dei direttori italiani più richiesti. Un segnale?
«Ci tornerò nel 2021, ma ci sono anche altri direttori italiani nella stagione parigina: direi che è un buon segnale per il nostro Paese». 

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