Carlo Nordio
Carlo Nordio

Non era mafia/ Giustizialisti spiazzati dallo Stato di diritto

di Carlo Nordio
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Giovedì 24 Ottobre 2019, 00:15
In un Paese normale, una sentenza della Corte Suprema che escluda un semigoverno mafioso della Capitale dovrebbe essere accolta, se non proprio con entusiasmo, almeno con un certo sollievo. In effetti non c’è gran ragione di tripudiare, perché gravi reati sono emersi nel “Mondo di mezzo”, ed è giusto che, nella rideterminazione delle pene, i prossimi giudici applichino le sanzioni adeguate.

Tuttavia vi è una differenza abissale tra l’operato di organizzazioni criminali ordinarie - peraltro presenti non solo a Roma ma anche in altre città - e la contaminazione mafiosa che agisce attraverso lo strumento violento e intimidatorio. Ed è questa la notizia confortante: la nostra Capitale non era nelle mani di simili individui.

Poiché tuttavia non siamo in un Paese normale, e l’eccitazione giustizialista continua a coniugarsi con l’insofferenza e l’ostilità ad ogni conclusione contraria - anche se proviene dalla Cassazione - abbiamo assistito a una sorta di artificiosi “distinguo”che possono riassumersi così: «Non sarà stata la mafia, ma era comunque una massa di banditi. Se non è zuppa, è pan bagnato».

Questa reazione grossolana, se può essere comprensibile nel cittadino ordinario, è a dir poco vituperevole tra chi conosce il diritto o addirittura pretende di spiegarlo. 
Perché la differenza tra associazione per delinquere e associazione mafiosa non è affatto questione nominalistica, come se si trattasse di sfumature del medesimo concetto. 

Sono due cose ontologicamente diverse: e così diverse che per la seconda lo Stato ha istituito un apparato normativo tanto grintoso e severo da sfiorare i limiti dell’incostituzionalità: dall’invasività delle intercettazioni all’ergastolo ostativo (proprio ieri dichiarato incostituzionale) fino alla reclusione dell’articolo 41 bis che grida vendetta al senso di umanità e alla funzione rieducativa della pena. Tra le due ipotesi c’è la differenza che passa tra una polmonite e un carcinoma.

Ora invece questa differenza pare quasi sfumarsi, nella delusione di chi avrebbe voluto appiccicare a Roma anche l’etichetta mafiosa. Invece di tirare un respiro di sollievo, assistiamo ai sibili di rancore delle anime belle che avevano predicato l’esistenza, accanto alla cupola di San Pietro, di quella della lupara. Un accanimento autolesionista che offende la Capitale, l’Italia, e la stessa Cassazione. Ma, come ormai sappiamo, il giudice terzo e imparziale è considerato una sorta di astrazione fastidiosa, una protesi inutile alle intangibili virtù etiche ed investigative delle procure. Ora, non c’è nulla di male ad ammettere che l’ipotesi accusatoria era sbagliata: fa parte della fisiologia della giustizia penale. E’invece irritante, per non dire peggio , ostinarsi a sostenere delle tesi smentite da una sentenza definitiva. 

La quale sentenza dovrebbe insegnare alcune cose. La prima, una maggior cautela nell’elevare imputazioni gravissime nei confronti degli indagati e, nel nostro caso, pregiudizievoli all’immagine della Capitale e dell’intero Paese. La seconda, a indurre la politica a contare meno sulle indagini giudiziarie, e comunque a non strumentalizzarle ai propri fini. La terza a suggerire al legislatore una migliore definizione di alcuni tipi di reati, come appunto l’associazione mafiosa, o l’abuso di ufficio che consentono quella giurisprudenza creativa che fa della certezza del diritto una favola vuota. La quarta, a rivedere un sistema processuale che consente di condannare in secondo grado chi è già stato assolto nel primo, in barba al principio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio” sancito dalla Costituzione. 

Perché, se un imputato viene assolto, un giudice ha già dubitato della sua colpevolezza, ed è assurdo che un giudice successivo, senza nemmeno rifare il processo ma solo leggendosi le carte, possa decidere il contrario. 
Vi è infine un’ultima considerazione dolorosa. Anche se gli imputati di questo processo non sono picciotti con la coppola , non sono nemmeno persone immacolate. Alcuni reati, come dicevamo, sono stai confermati, anche se le condanne andranno rideterminate nell’entità. Ebbene, a questi soggetti lo Sato dovrà tuttavia chiedere scusa, perché vittime di una decisione sbagliata, e forse risarcire i danni. 

Una piccola aggiunta finanziaria in un processo di cui nessuno saprà mai i costi reali, che probabilmente sarebbero stati meglio impiegati per potenziare i commissariati, aumentare le pattuglie e magari pagare gli straordinari alle forze di polizia.
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