Maker Faire, Dale Dougherty: «Così cambierà il mondo»

Maker Faire, Dale Dougherty: «Così cambierà il mondo»
di Andrea Andrei
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Lunedì 21 Ottobre 2019, 00:00
Una cosa è certa: il settimo anno non è stato quello della crisi. La tre giorni di Maker Faire Rome, il più importante evento europeo dedicato all’innovazione organizzato da Innova Camera (Azienda speciale della Camera di Commercio di Roma), si è conclusa ieri con un bilancio sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente. Oltre 100 mila persone hanno infatti affollato gli enormi spazi della Fiera di Roma, più di 100 mila metri quadrati di esposizione divisa in sette padiglioni tematici per ospitare oltre 600 progetti da 40 Paesi. E fra gli stand (tra i quali, come ormai da tradizione, c’era anche quello del Messaggero) c’erano studenti (erano 28 mila quelli entrati in fiera venerdì per la giornata dedicata alle scuole), famiglie con bambini, rappresentanti di piccole e grandi aziende, figure istituzionali (fra cui il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti e la sindaca di Roma Virginia Raggi). E poi, naturalmente, c’erano i makers, quegli artigiani digitali che negli anni sono diventati ricercatori, inventori, imprenditori.

E con il suo zaino in spalla, proprio come un maker qualsiasi, c’era anche Dale Dougherty, colui che ha dato un nome, un marchio e una voce al movimento che è alla base delle Maker Faire di tutto il mondo. Dougherty, californiano di 64 anni, è il fondatore di Maker Media, l’azienda editoriale che pubblica Make Magazine (la rivista attorno alla quale è nato il movimento), e che organizza le Maker Faire. Solo che lo scorso giugno, Dougherty ha sciolto la società e licenziato i suoi 22 dipendenti, gettando nello sconforto i suoi seguaci. Un mese più tardi ne ha fondata una nuova con il nome di Make Community e ha riassunto 15 persone. «Ora ho un team che si occupa di gestire le licenze di Maker Faire e un altro che si occupa della pubblicazione di una rivista cartacea trimestrale di circa di 130 pagine al costo di 12,99 dollari a numero», ci racconta Dougherty, «Abbiamo 80 mila abbonati. Penso che sia giusto investire su un giornale cartaceo oggi, alla gente piace la carta stampata.

Ama sfogliare le riviste, le conserva, le colleziona. Forse perché in un mondo virtuale cerca qualcosa di tangibile. Perciò abbiamo strutturato il magazine dando importanza alla grafica. Lo abbiamo trasformato in un’esperienza, come guardare un film». Sorride di continuo Dougherty, ma non di imbarazzo né per timidezza. È semplicemente tranquillo, e con la stessa tranquillità affronta l’argomento della crisi della sua azienda. «È difficile amministrare un giornale, ma organizzare eventi è peggio. Perché? Beh, si guardi attorno: bisogna mettere d’accordo un sacco di persone, di sponsor. Non è sempre sostenibile. Ma quello che è successo alla mia azienda è solo una questione di business, la nostra missione è rimasta la stessa: essere al servizio della gente. Fare soldi è un’altra cosa. Noi facciamo informazione non per vendere prodotti, ma per far scoprire alle persone degli strumenti con cui poter fare delle cose straordinarie».

LA COMUNITÀ
Come a dire: se fallisce un’impresa non vuol dire che il messaggio non resti valido. «Per i makers il senso di comunità è fondamentale. In molti ci hanno mostrato vicinanza e supporto. Però credo che la nostra esperienza possa aver insegnato all’intero movimento una cosa importante: che le idee, la fede e la buona volontà non bastano». E se la comunità degli (ex) artigiani digitali si è stretta attorno a Maker Media, altrettanto non si può dire della Silicon Valley, che è proprio il luogo in cui i makers non nati. «Forse sì, mi aspettavo maggiore solidarietà da parte loro», sospira Dougherty, «ma oggi quelle società sono cresciute fino a diventare le più grandi del mondo, e hanno cambiato i loro obiettivi. Sono concentrate sul business, e non sono più aziende in cui si crea qualcosa, società in cui si amministrano servizi.

E da quando c’è Trump alla presidenza degli Usa le grandi aziende hanno smesso di pensare a lungo termine. Però il vero punto è che non serve il supporto della Silicon Valley, né quello dei politici. Basta guardare la Maker Faire di Roma, che ormai è la più importante del mondo: ci sono persone da tutto il mondo che condividono idee, che si trasmettono conoscenze e informazioni, che si danno l’ispirazione l’un l’altra per dar vita a qualcosa di nuovo che possa risolvere dei problemi comuni, come il cambiamento climatico. Lo spirito maker è in chiunque, ed esiste da sempre. L’importante è creare una cultura dell’innovazione, puntando sulla scuola e sull’università. Possiamo lavorare insieme per cambiare il nostro mondo e le nostre città, senza limiti o bandiere. E questa è una cosa potentissima. Molto più della politica».
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