Riccardo de Palo
Lampi
di Riccardo De Palo

Quando Harold Bloom stroncava Jonathan Franzen e David Foster Wallace

Harold Bloom (a destra)
di Riccardo de Palo
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Martedì 15 Ottobre 2019, 15:35
Harold Bloom (morto ieri in un ospedale di New Haven, nel Connecticut, all’età di 89 anni) era uno dei critici più influenti e controversi della letteratura angloamericana. Il suo “Canone occidentale” (1994) ha dettato legge per decenni: «Shakespeare è Dio», diceva, includendo tra i grandi di tutti i tempi Dante, Goethe, Cervantes, Tolstoj, Chaucer. Alcuni, in seguito, hanno notato che i pilastri della cultura occidentale, secondo lui, erano formati soltanto da autori «bianchi e maschi», mentre gli altri - femministi, marxisti, o di culture diverse - andavano ascritti alla “Scuola del Risentimento”. L'accusa lo faceva inorgoglire: «Il '68 - sosteneva - ha distrutto l'estetica  introducendo una finta controcultura politically correct in base alla quale basta essere un’esquimese lesbica per valere di più come scrittrice». Verrà un giorno, profetizzava senza sbagliarsi di molto, in cui «fumetti di Batman, parchi tematici mormoni, televisori, pellicole cinematografiche e rock sostituiranno Chaucer, Shakespeare, Milton». 

Incontrato durante un seminario universitario, a Bologna, trent’anni fa, aveva un’aria autorevole e carismatica, che incantava gli studenti. Aveva deciso di studiare la Bibbia come una qualunque opera letteraria, e aveva scritto “The Book of J”, partendo dal punto di vista dell’ipotetico io narrante. Lui la spiegava così: «L’adorazione occidentale di Dio – da parte di ebrei, cristiani e musulmani – è l’adorazione di un personaggio letterario». Erano i tempi di Jacques Derrida, del decostruttivismo, e in letteratura fiorivano postmoderni e minimalisti: fenomeni che Bloom non aveva mai preso molto sul serio. I suoi commenti sulle mode letterarie del momento erano memorabili. Trovava ridicolo paragonare Jonathan Franzen a Charles Dickens; di David Foster Wallace, pensava che fosse uno scrittore dotato, ma  la sua opera «non arriva da  nessuna parte». Dei suoi contemporanei salvava soltanto Philip Roth, Don DeLillo, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy.

Ribelle per natura, dalla vena ironica inesauribile, allergico ai computer, l’autore de “L’angoscia dell’influenza” cambiava metodi di studio senza mai aderire ad alcuna ideologia, ad alcun metodo specifico. E scriveva rigorosamente a mano, o dettava i suoi testi alla moglie. Si vantava, e molto, di non avere una scuola, né colleghi. Per lui la critica non aveva nulla a che fare con la filosofia, la politica, la religione: «Nei casi più alti è una forma di letteratura sapienziale, e quindi una meditazione sulla vita». Con una quarantina di libri, e i suoi corsi a Yale, Bloom è riuscito ad attirare e a formare generazioni di lettori, riuscendo a dimostrare che la critica può essere una forma potentissima, forse la più nobile, della letteratura.

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