Licia Maglietta: «Soprano e imprenditrice: Emma Carelli, “La prima donna” che non poteva essere prima»

Licia Maglietta nei panni di Emma Carelli nel film La prima donna, il 14 al Teatro Costanzi
di Simona Antonucci
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Lunedì 7 Ottobre 2019, 19:45 - Ultimo aggiornamento: 11 Ottobre, 20:32

«Si permetteva di dare consigli a Toscanini e di sfidare i gerarchi che pretendevano di entrare gratis a teatro con tutte le famiglie. Una “ragioniera”, che sapeva far quadrare i conti risparmiando anche sui bottoni dei costumi, e un’innovatrice che negli anni in cui cominciava a calare il buio della Guerra, portò per la prima volta in Italia, nel suo Costanzi, la luce dell’arte, Picasso, i Balletti russi, i Futuristi».
 

 


Licia Maglietta presenta Emma Carelli, cantante d’opera e direttrice del lirico romano tra il 1912 e il 1926, personaggio leggendario e dimenticato cui è dedicato il film di Tony Saccucci, “La prima donna”, evento di pre-inaugurazione della Festa del Cinema di Roma, il 14 ottobre, al Teatro dell’Opera: nato da un’idea dell’attuale sovrintendente Carlo Fuortes, e proposto dopo due anni di lavoro con l’Istituto Luce, ripercorre la vita avventurosa di una diva osannata e annientata, perché non poteva essere “prima”.

Nell’Italia che si avvia verso il regime autoritario, Emma vede la fine del suo teatro, del suo matrimonio, del suo ruolo da protagonista nel mondo dello spettacolo. E muore in modo cruento nel 1928, anno che registra il maggior numero di donne suicide nella storia del nostro Paese. «La Carelli era un soprano acclamato nei primi del Novecento fino in Sudamerica», racconta l’attrice, «e riuscì a trionfare come impresaria in un ambiente dominato esclusivamente dagli uomini. Libera, emancipata: troppo per quell’epoca. Tanto che perse tutto. Una parabola di cento anni fa. E di oggi. Mi dispiace dirlo ma non credo che sia cambiato granché».

Che persona era, secondo lei?
«Lei cantava e sbraitava. Aveva una voce che faceva sognare il pubblico di tutto il mondo e due braccia da “camionista” che riuscivano a guidare su e giù per l’Europa la sua adorata Lancia Lambda, una specie di siluro con un volante così duro che quando ci sono salita sopra per girare alcune scene ho avuto difficoltà persino a girare il volante».

Artista, moglie, imprenditrice, la storia intima qual è?
«Era una star, quando il marito, l’impresario Walter Mocchi, le propone di guidare il Costanzi. Lei, per una prima stagione continua esibirsi poi si rende conto dell’impegno che serviva per mandare avanti l’azienda e smette. Gestiva un terzo dei soldi della Scala, non poteva permettersi le attrezzature all’avanguardia del lirico milanese. A Roma si faceva tutto a mano, le scene dipinte a pennello. Ma aveva testa e personalità. E riuscì a portare nella sua sala romana gli artisti delle Avanguardie. Può immaginare i concorrenti uomini? Mascagni ha cercato in tutti i modi di gettare fango su di lei. Il marito l’ha tradita. E poi ci ha pensato Mussolini a darle il colpo finale».

Con quale giustificazione venne allontanata?
«Abbiamo trovato documenti che fanno venire la pelle d’oca. Disparità di genere? Direi violenza di genere. Un resoconto redatto dalla polizia fascista recita: “Come donna ha sviluppato un carattere indipendente che le fa assumere atteggiamenti di superiorità verso chicchessia”. Una vicenda dura ma piena di fascino che toglie polvere da un periodo in cui l’opera italiana dettava legge nel mondo».

Oggi i teatri sono diversi?
«Direi di sì. Loro conducevano vite straordinarie. Sei mesi l’anno in Europa e appena chiudevano le stagioni, salivano tutti in nave, sarte, macchinisti, cantanti. E via, verso Brasile, Argentina, Cile e poi dall’altra parte del mondo, San Pietroburgo. Avventure umane e artistiche che fanno impallidire molte delle storie raccontate dal nostro cinema. Quanti filmetti inutili».

In che modo Emma l’ha arricchita? 
«Conoscerla è stato straordinario. E inquietante. Una forza della natura. Con un coraggio e un’indole impetuosa che l’hanno resa protagonista e vittima di un’epoca. Esattamente come tante di noi. Le donne di carattere non sono mai piaciute. E il cordone di sicurezza per tenerci in disparte c’era e c’è. Non parliamo solo del mondo dello spettacolo, dove guadagniamo di meno, abbiamo meno ruoli e meno opportunità. Nell’imprenditoria è lo stesso. Partecipai tempo fa a un convegno di donne manager. Una di loro, super testa di una società multinazionale, raccontò questa storia: riunione blindatissima, tutti uomini e lei, quando entra un collega straniero che le chiede con imperio di accompagnarlo al suo posto. Nel cervello di quell’uomo, una signora in mezzo a loro, che altro poteva essere se non una hostess?».

Nei documenti e nelle foto emerge anche un po’ di vita privata?
«Lei abitava nel teatro, al terzo piano insieme con la mamma. Stava lì tutto il giorno a tener testa a cantanti e macchinisti. Pare avesse un vocione da far tremare i vetri. I suoi documenti, era una che annotava tutto, vennero tutti sequestrati dalla polizia di allora. Il fratello è riuscito a conservare qualcosa e siamo partiti da lì. Dalle foto si percepisce il cambiamento e il dolore. All’inizio era carina, piccola con grandi occhi azzurri. Poi sempre più abbandonata a se stessa. Di registrazioni degli spettacoli c’è poco e niente. Allora la tecnologia non era granché. E lei non voleva passare alla storia lasciando “suoni gracchianti”. Ma traccia del suo carattere è rimasta ovunque».

Il battibecco con Toscanini?
«Quando Toscanini parlava, intorno c’era il silenzio da messa. Alla Scala, Emma venne convocata dal Maestro appena ventenne. Lui doveva comunicare il cast e agli altri non restava che obbedire o applaudire. Lei, invece: “scusi maestro ma perché non ha scelto Caruso? È lui il più adatto al ruolo. È lui che deve cantare con me. Impallidiscono tutti. E svengono quando Toscanini le dà ragione e scrittura Caruso».

E con i gerarchi che cosa succedeva?
«Emma non sopportava che si presentassero in teatro senza pagare, con la famiglia, e quando volevano. I gerarchi avevano una tessera che consentiva loro l’ingresso gratis in determinati giorni. Quando non rispettavano le regole rispediva tutti alla porta. Non si trattava di antifascismo, ma di rispetto della sua istituzione».

Che cosa amava la Carelli, oltre al suo teatro?
«Diceva sempre che amava tre cose.
Il marito, che poi diventò fascista e la tradì con altre donne e con il Regime. Il teatro e la sua macchina che, ripeteva, “un giorno mi ucciderà”. E così fu. Mi vengono i brividi. Noi abbiamo cercato di farla rivivere in questo film girato proprio nel suo Costanzi. Certe figure vanno ricordate, omaggiate, divulgate ai nostri figli. La storia la fanno gli uomini. E le donne». 

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