Previdenza, l'anomalia delle casse vigilate a metà

Previdenza, l'anomalia delle casse vigilate a metà
di Marco Barbieri
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 25 Settembre 2019, 06:19 - Ultimo aggiornamento: 30 Settembre, 15:30
L’Italia è un Paese per vecchi, ma anche dotato di istituzioni giovani. Istituzioni giovani che camminano sulle gambe di un vecchio. Non è il meglio che ci si potesse augurare. Ma i vicini e il passato non si possono scegliere. Da quanti anni parliamo di previdenza complementare? Meno di trent’anni, se si escludono le esperienze di qualche azienda più ricca o più illuminata, che sono all’origine di quei “fondi preesistenti” di cui si parla nei bilanci di chi studia o vigila sul sistema dei fondi pensione: per esempio, il fondo di previdenza complementare negoziale più grande (almeno per numero di aderenti e per masse amministrate), quello dei lavoratori metalmeccanici, noto con il nome di Cometa, compie vent’anni.

Non è una giustificazione, ma una spiegazione sì, per la lenta, lentissima, conversione all’idea che la pensione – sì, anche la pensione – ciascuno deve un po’ costruirsela. Con le sue mani, con i suoi contributi, con la sua lungimiranza, quindi con il suo lavoro.

OTTO MILIONI DI ISCRITTI
Già, se poi se ne parla in tempi di lavoro scarso, discontinuo, poco retribuito, è ancora peggio. Mario Padula, presidente della Covip, la Commissione di vigilanza su fondi pensione, preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno («gli iscritti alle diverse forme di previdenza complementare sono quasi 8 milioni, una copertura del 30% sul totale della forza lavoro»), ma sa benissimo che quel bicchiere resta vuoto per l’altra metà. E forse un po’ più della metà.
«Le caratteristiche del mercato del lavoro e la transizione demografica condizionano inevitabilmente la crescita del secondo pilastro previdenziale». Un po’ anche perché il primo, pur essendo diventato fragile (in relazione alle prestazioni attese) resta assai ingombrante (con riferimento in particolare all’obbligo contributivo che oscilla intorno al 30% della retribuzione) per poter sperare di liberare risorse alla pensione complementare.

TRA PATRIMONIO E PIL
Un indicatore utile per valutare il grado di sviluppo dei sistemi di previdenza complementare è rappresentato dal rapporto tra il patrimonio dei fondi pensione e il Prodotto interno lordo di un paese. In Olanda questo rapporto oscilla negli ultimi anni intorno al 140% (cioè il patrimonio accumulato è visibilmente superiore al Pil) in Italia è appena più alto del 10%, arriva a una quota del 15-16% se si aggiungono i patrimoni delle Casse previdenziali.
Ma è un confronto improprio, anche se praticato spesso. I nostri fondi pensione restano troppi - «l’offerta di strumenti di previdenza complementare si compone di 398 forme pensionistiche» spiega Padula - e poco capitalizzati. «Ma mi lasci dire che almeno sul fronte della trasparenza abbiamo qualcosa da insegnare all’Europa. Anche le ultime direttive hanno di fatto importato e stabilito i criteri italiani di vigilanza e controllo», aggiunge il presidente della Covip. Peccato che in Italia abbiamo un terzo del mercato vigilato che non è sottoposto alle stesse regole sugli investimenti. Parliamo delle Casse di previdenza privatizzate.

IL REGOLAMENTO MANCATO
Per Padula non è un motivo di polemica, ma un obiettivo preciso: «Tutti devono rassegnarsi alle regole e alla regolamentazione. Finché non ci sarà un regolamento che definisca comportamenti e controlli uguali per tutti ci sarà un problema. I 167 miliardi di capitale amministrato dai Fondi pensione, quando si affacciano sul mercato degli investimenti, si devono attenere a regole che non valgono per gli 87 miliardi di cui dispongono complessivamente le Casse. E’ un problema».

IL PESO DELLA POLITICA
Un problema irrisolto da otto anni. Da tanto si attende quel regolamento che assimili o coordini gli obblighi delle Casse a quelli dei Fondi. Il peso della politica? Il condizionamento che si rende reciprocamente fra decisori politici e categorie professionali più o meno influenti? Padula preferisce restare estraneo alle motivazioni di questa anomalia, ma la sottolinea. E aggiunge: «Confondere gli obiettivi della previdenza con quelli della politica non ha mai portato nulla di buono, come ci insegnano diverse esperienze negli Stati Uniti».
Resta il fatto che il sistema della previdenza complementare «funziona bene nel suo complesso. Il contenimento dei costi è una realtà documentata. Resta la grande questione dell’inclusione. Età, genere e geografia dividono il Paese: l’adesione alla previdenza complementare è più uomo che donna, più Nord che Sud, più adulto che giovane». C’è un tema di consapevolezza, di educazione previdenziale e finanziaria, e all’orizzonte una prospettiva di integrazione tra sistemi, previdenza e salute, che impongono una riflessione sul welfare integrato e soprattutto su chi debba “vigilarlo”.

UN’AUTHORITY PER LA SALUTE
Dal 1996 il mercato della previdenza complementare conta su una authority di vigilanza, la Covip. Non può dire altrettanto il mondo della sanità integrativa. In una recente intervista a wewelfare.it, Tiziano Treu, il presidente del Cnel, oltre che decano tra gli esperti di welfare e mercato del lavoro in Italia, sosteneva che la vigilanza sul sistema della sanità integrativa avrebbe richiesto competenze diverse da quelle del controllore finanziario, arrivando alla conclusione che ci vuole una competenza manageriale sull’erogazione efficiente dei servizi. 
A sua volta Padula ribadisce che Covip avrebbe comunque «un vantaggio comparato nel vigilare su soggetti che, come quelli che operano nella previdenza complementare, hanno una natura mista: un po’ contrattuali e un po’ assicurativi di mercato. E soprattutto la distinzione tra previdenza complementare e sanità integrativa è destinata a dissolvere all’interno di un unico perimetro di welfare integrato».
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA