Cesare Mirabelli

Domani la Consulta/ I confini di una legge sull’aiuto al suicidio

di Cesare Mirabelli
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Lunedì 23 Settembre 2019, 00:28
La «opportuna riflessione e iniziativa» del Parlamento, che la Corte costituzionale ha sollecitato «in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale» per risolvere la questione dell’aiuto al suicidio non ha avuto l’esito atteso.
La Camera, dopo numerose audizioni in Commissione, non ha scelto un testo da porre a base della discussione. Il Senato, essendo questo argomento incardinato nell’altro ramo del Parlamento, non ha avviato l’esame dei progetti che pure sono stati presentati. Mentre, con un impegno dell’ultima ora, le forze politiche rappresentate in Parlamento sollecitano se stesse per una soluzione legislativa.
Nell’ottobre dello scorso anno la Corte costituzionale, pur fissando i principi che avrebbe posto a base delle sue valutazioni, aveva osservato che la soluzione del quesito di legittimità costituzionale, relativo alla punizione prevista dall’articolo 580 del codice penale per tutti casi di aiuto al suicidio, coinvolge «l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere», ed aveva rinviato il riesame della questione all’udienza di domani, indicando cautele e percorsi che il legislatore avrebbe potuto considerare per «rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato». 
La Corte potrebbe ora rinviare nuovamente la propria decisione, come ulteriore atto di collaborazione istituzionale; tuttavia senza avere la certezza che il Parlamento decida, e con la complicazione, anche se questo non costituisce un ostacolo assoluto, di un mutamento nella composizione della Corte, giacché nel prossimo mese di novembre scadrà il mandato del suo Presidente. 
È anche possibile, all’opposto, che la Corte decida il merito della questione, privilegiando l’esigenza, che ha già segnalato, di «evitare, per un verso, che una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili», e cercare «al tempo stesso di scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale, che il Parlamento avrebbe potuto assicurare».
Nel fondo: come conciliare il conflitto, che potrebbe apparire insuperabile, tra il diritto alla vita e la scelta di morire. Alcuni percorsi per una soluzione di questa antinomia sono segnati dall’ordinanza della Corte numero 207 del 2018, che ha affrontato il primo esame della questione. 
La Corte ha riconosciuto che il diritto alla vita è il «primo dei diritti inviolabili dell’uomo«, e che dall’articolo 2 della Costituzione e dall’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo «discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello - diametralmente opposto - di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Ed ha precisato che l’articolo 580 del codice penale «anche nella parte in cui sottopone a pena la cooperazione materiale al suicidio» è «funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento» e che la «incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione».
D’altra parte la Corte ha anche affermato che questa tutela penale del diritto alla vita, orientata «a proteggere il soggetto da decisioni in suo danno», non possa essere così assoluta da valere nelle «ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
In questi casi «l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’articolo 32, secondo comma, della Costituzione», che esclude l’obbligo di essere sottoposti a trattamenti sanitari.
La Corte sottolinea che in queste situazioni «la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua».
Questi elementi, pur sommariamente ricordati, offrono la traccia di una possibile decisione della Corte. Mantenere la previsione come reato dell’aiuto al suicidio, dichiararne la incostituzionalità nella parte in cui prevede che sia punibile anche quando ricorrano le condizioni prima indicate, e le altre «opportune cautele», tra le quali la Corte ha compreso «il coinvolgimento in un percorso di cure palliative». 
Si può essere d’accordo con questa soluzione, se ne può, al contrario, contrastare il fondamento o il contenuto: in ogni argomento che riguarda la vita e la morte si manifestano convinzioni e sensibilità diverse. Tuttavia dovrebbe essere comune a tutti l’impegno ad una concreta espressione di solidarietà nei confronti della persona sofferente. È un obbligo delle istituzioni apprestare ogni strumento per la cura adeguata nelle infermità permanenti e nella fase terminale della vita, ed offrire ogni sostegno alle famiglie che ne hanno il maggior carico. È dovere di solidarietà che la Costituzione, nel riconoscere e garantire i nostri diritti inviolabili, impone come «inderogabile» a ciascuno di noi. Quale che sia la decisione della Corte, varrebbe la pena ricordare anche questo.
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