Violenza sulle donne, il giudice Roia: «Tribunali e codice rosso, un triage eviterà il caos»

Violenza sulle donne, il giudice Roia: «Tribunali e codice rosso, un triage eviterà il caos»
di Maria Lombardi
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Sabato 14 Settembre 2019, 10:15 - Ultimo aggiornamento: 14:51

«Se tutto diventa urgente niente finisce per esserlo davvero». Il Codice rosso ha poco più di un mese. Da quando la legge per tutelare ancora di più le vittime di violenza è entrata in vigore le Procure sono state sommerse dalle denunce. Una legge «buona e necessaria, merita tra il 7 e mezzo e l'otto», Fabio Roia, il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano, è tra i massimi esperti in Italia di crimini contro donne e minori. Ma con qualche criticità, avverte il magistrato, e il rischio soprattutto di affollare gli uffici giudiziari con una valanga di casi da trattare con urgenza. Tutti insieme e tutti con la stessa urgenza ovviamente non si può.

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Presidente, può fare un bilancio del primo mese del Codice rosso? Quali sono le novità positive e quali le difficoltà emerse?
«Cominciamo dagli aspetti positivi. L'obbligo di comunicare immediatamente al pm le notizie di reato di maltrattamenti, violenza, atti persecutori e di mettere in atto le attività di indagini da parte della Procura elimina il fenomeno della stagnazione delle denunce, una delle cause principali dell'aumento dei femminicidi. Gli uffici della Procura oberati non trattavano tempestivamente quei casi o lo facevano a distanza di mesi. Quel tempo di attesa esponeva le vittime a nuove violenze. Se guardiamo al lungo termine, credo che assisteremo a una diminuzione dei femminicidi. C'è però anche un aspetto negativo».

E quale sarebbe?
«Le Procure, in particolare quelle delle grandi città, sono state sommerse dalle denunce. A Roma, Milano e Napoli si calcola una media di 20 segnalazioni al giorno per i reati da Codice Rosso. Davanti a una pioggia di denunce, diventa più difficile capire cosa è più grave e cosa invece può aspettare, ovvero quale denuncia ha carattere prioritario».

Come si può evitare il rischio caos?
«Con la competenza e la specializzazione di pubblici ministeri e operatori delle forze dell'ordine. In Italia ormai il 70% delle Procure ha almeno un magistrato con competenze specifiche nel contrasto alla violenza sulle donne. E la legge sul Codice rosso ha reso obbligatoria la formazione. L'obiettivo è far sì che gli operatori di polizia giudiziaria e i magistrati siano specializzati e formati per valutare le priorità. Andrebbe introdotto il triage come nei pronto soccorso degli ospedali, con codice giallo verde e bianco per differenziare il livello d'urgenza».

La legge impone la formazione ma non stanzia risorse.
«Questo è il vero tema. Senza risorse per la formazione e per implementare il personale a disposizione delle Procure c'è il rischio che tutto venga vanificato».

Qualche critica è stata rivolta anche all'obbligo del pm di ascoltare la vittima entro tre giorni dalla denuncia. È d'accordo?
«Sì. Non c'è sempre la necessità di sentire la donna un'altra volta e così facendo si rischia una vittimizzazione secondaria. Spesso le denunce sono molto circostanziate, in questi casi un colloquio così tempestivo è del tutto inutile. La Procura di Milano ha già emanato un ordine di servizio secondo cui la donna va sentita solo se c'è necessità di approfondire denunce lacunose».

Cosa manca secondo lei alle norme previste nel Codice Rosso?
«Un paio di misure, a mio parere. Non è stato previsto l'arresto differito nella flagranza delle 48 ore, come avviene per i reati commessi allo stadio. Dal momento della denuncia a quando vengono eventualmente presi provvedimenti nei confronti del violento passano almeno 7, 8 giorni. E la donna nel frattempo dove va? Se ci fosse stata quella norma, ad esempio, forse si sarebbe evitato l'ultimo femminicidio di Milano, quello di Adriana Signorelli che 4 giorni prima di essere uccisa aveva denunciato le violenze subite dal marito. Con l'arresto nella flagranza delle 48 ore l'uomo, se ci fossero stati i presupposti, sarebbe finito in galera. E poi avrei introdotto pene più severe in caso di violazione dei divieti di avvicinamento alle vittime, così da poter prevedere l'arresto».

Le donne trovano il coraggio di parlare, a volte rischiando la vita, ma spesso non vengono credute. Perché?
«E' proprio così. C'è un grande lavoro di preparazione da fare per abbattere questo genere di pregiudizi. Se una donna denuncia episodi di violenza bisogna crederle. Anche per questo è indispensabile la specializzazione degli operatori».

Quanti processi finiscono con le assoluzioni?
«Le percentuali sono variabili. Ma bisogna sempre considerare l'ambivalenza delle vittime che magari a distanza di tempo dalla denuncia fanno un passo indietro. I casi di archiviazione e assoluzione non vanno però confusi con le false denunce, chi le fa rischia una condanna per calunnia».

Le donne però continuano a essere uccise, come prima.
«Le leggi non possono tutto. La violenza sulle donne è figlia di una cultura maschilista e patriarcale, si sconfigge nella società. Molti uomini pensano ancora che la donna debba essere sottomessa da un punto di vista sessuale e vada trattata come un oggetto. Gli insulti sessisti che dilagano sul web non fanno altro che alimentare gli attacchi alle diversità e ai soggetti più deboli».

 

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