Mario Ajello
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Democrazia diretta/ Rivoluzione in archivio, la realpolitik prima di tutto

di Mario Ajello
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Martedì 3 Settembre 2019, 00:37
Le sorti nazionali che sarebbero in mano a Rousseau, inteso come piattaforma e non come Jean-Jacques, non possono far dimenticare - in queste ore molto delicate - ciò che diceva Tocqueville. E cioè che «la libertà dei moderni sta nel non doversi occupare direttamente della cosa pubblica, dunque nella possibilità di delegare con il voto». Semplice lezione di liberalismo che, parafrasando una celebre massima, resta la peggiore forma della politica ad eccezione di tutte le altre. 
La forma del grillismo digitale si mette in scena oggi e qualunque sarà l’esito della consultazione questa ha il sapore di un addio ai “ludi elettronici” e alla presunta volontà generale che decide con un clic. Questo voto su Rousseau segnala infatti una novità che insieme è una nemesi. Quella della democrazia diretta che doveva essere il Nuovo Principe e invece per volere di Grillo - proprio lui che vedeva nel web il sol dell’avvenire - si fa ancella della democrazia parlamentare.
Rinuncia al sogno palingenetico di un nuovo rapporto tra politica e popolo sulla via del superamento del concetto classico di rappresentatività. Si fa strumento di ratifica di patti e di accordi raggiunti, o quasi, nelle stanze di un Palazzo che non è stato sventrato come una scatoletta di tonno.
«Esci dal tuo blog!», aveva detto del resto Renzi a Grillo, in uno dei famosi streaming (strumento a sua volta già in archivio) e Beppe adesso ne è uscito portandosi appresso gran parte dei suoi. 
Con la mutazione genetica impressa a M5S dal suo fondatore, quella del superamento del sogno rivoluzionario in nome delle convenienze pratiche, lo strumento Rousseau che rappresentava l’algoritmo al potere perde insomma il suo senso, elimina di fatto se stesso, diventa di colpo il passato di un’illusione o il ricordo rassicurante di un’identità rottamata dal ripristino della normalità. 
E dunque, la questione non è più se sia vero o falso, se sia autentico o artefatto il voto sulla piattaforma elettronica. Il punto è che questo voto è stato vanificato (anche se lo spettacolo di queste ore mantiene il titolo: Aspettando Rousseau) nel momento in cui il tentato mescolamento tra rosso-gialli avviene secondo le logiche e nei luoghi tradizionali del gioco politico.
La rivoluzione sembra aver divorato se stessa e Rousseau appassisce in queste ore proprio in coincidenza con la sua massima esposizione pubblica. E pensare che questo mezzo ma anche fine è stato uno dei pilastri della neo-politica degli ultimi anni, ha funzionato da frusta anti-casta, ha agito da gemello e da amplificatore della retorica sul taglio del numero dei parlamentari e da miccia per altre battaglie “del popolo” contro gli ottimati, dell’agorà contro le poltrone. 
Il tutto in nome del famoso filosofo ginevrino (in versione maccheronica, naturalmente) contro Voltaire, contro Montesquieu, contro il razionalismo illuminista che ha concepito l’articolazione dei poteri in quella maniera che il costituzionalismo otto-novecentesco ha portato fino ad oggi e che, tra alti e bassi, ha funzionato. Anche se ormai necessita di un rinnovamento vero e non sintetizzabile in un clic. 
Non si tratta quindi di essere felici o infelici per questa sorte che sembra toccare alla democrazia diretta in chiave Casaleggio. Va soltanto registrato il fatto. A cui si può aggiungere questa considerazione. Se oggi ci fosse, come è probabile, la ratifica dell’accordo, comunque restano le differenze strategiche e culturali dentro un movimento in cui convivono la “destra” di Di Maio, il nostalgismo nei confronti di Salvini, la sinistra di Grillo e di Fico, il governismo simil-democristiano o modello Ursula di Conte. Non sarà facile far convivere tendenze così diverse, che rischiano di pregiudicare l’azione e la buona salute dell’esecutivo. 
Salvini ha mostrato almeno per 15 mesi, grazie al monolite leghista che borbottava ma poi ubbidiva, di saper gestire il rapporto con il disordine del partito a 5 stelle. Il Pd, che al suo interno è tutt’altro che unito, dovrà faticare assai. Gli toccherà dare fondo alle sue riserve di professionismo politico, se ancora ne ha, perché la fusione a freddo dei rosso-gialli non si squagli.
A detrimento, prima ancora che di se stessa, di un Paese che chiede stabilità e decisioni.
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