Alessandro Campi
Alessandro Campi

Priorità sbagliate/ Il programma prima dei posti o non si danno risposte al Paese

di Alessandro Campi
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Mercoledì 28 Agosto 2019, 00:29
La trattativa per la costituzione di un governo giallo-rosso anche ieri è proceduta a scatti, tra brusche interruzioni e riprese improvvise. 
Il fatto è che la stanno conducendo due leader che in realtà – dopo la decisione di Salvini d’aprire la crisi – avrebbero voluto, per sé e per il proprio partito, esiti diversi da quelli che si stanno profilando: Zingaretti, elezioni anticipate che gli avrebbero consentito di sbarazzarsi dei renziani (ancora dominanti a livello di gruppi parlamentari), di rafforzare la propria presa sul partito e di puntare ai voti dei grillini in crisi di consensi e credibilità ormai da mesi; Di Maio un nuovo esecutivo da guidare sempre in accordo con la Lega, col via libera salviniano, al posto di Conte. Ma le cose, tra pressioni interne ed esterne d’ogni tipo e a ogni livello (ieri ci si è messo persino Trump), hanno preso una piega diversa.
Proprio a Conte, a conferma della centralità che s’è conquistato a scapito di colui che all’epoca lo scelse per svolgere il semplice ruolo del mediatore e del garante, non certo quello dell’aspirante capo-partito, è toccato ieri di sbloccare lo stallo nel quale si era finiti facendo sapere che Di Maio non ha chiesto per sé la poltrona di ministro dell’ Interno.
Unita alla vice-presidenza sempre per il capo politico del M5S (peraltro indebolitosi nel movimento) una simile richiesta sarebbe davvero difficile da digerire per il Pd, che a questo punto, avendo dato il via libera a Conte come premier, può ragionevolmente puntare sui ministeri più importanti e su un accordo che non appaia arrendevole dal punto di vista degli incarichi concessi e ottenuti. Ci riuscirà? E Di Maio si accontenterà di restare solo ministro?
E siamo al problema. Stanno parlando (e stiamo di conseguenza parlando anche noi) di come distribuire i posti nell’esecutivo, con l’aggiunta della ghiotta nomina a Commissario europeo. Intendiamoci, i governi sono anche questione di poltrone: chi occupa quale ruolo. Gli uomini (e le donne), se messi al posto giusto, spesso fanno la differenza, al netto delle legittime ambizioni personali su cui fare del moralismo equivale in politica a perdere tempo. Uno dei limiti del governo giallo-verde, rivisto criticamente oggi, è stato anche quello di avere destinato a ruoli di grande responsabilità figure certamente leali ai rispettivi dante causa ma talvolta scialbe e spesso di poca esperienza o capacità. Se il governo giallo-rosso riuscirà a mettere in campo personalità di maggiore spessore tanto di guadagnato per l’Italia.
Ma occupate tutte le caselle, forse già entro la giornata di oggi, e ricevuto Conte l’incarico formale come Presidente del Consiglio, si vorrebbe cominciare a capire cosa questo governo può o intende fare, oltre tenere lontano Salvini dal potere e ritardare sino all’ultimo giorno utile il voto degli italiani. Il programma, insomma, le cose da realizzare (almeno le più importanti): questione che per due forze diverse e distanti quali sono e sono destinate a restare Pd e M5S – nessuno si illuda troppo sulle inaspettate convergenze di queste ore – non è un dettaglio da poco, a meno di non voler dare l’impressione agli italiani che ci si è messi insieme solo per paura del loro giudizio nelle urne.
Oggi viene facile ironizzare (visto anche il fallimento che ha prodotto) sul “contratto” sottoscritto da grillini e leghisti per far nascere il loro governo. In politica valgono le alleanze, non i patti di natura privatistica. Ma quello, per quanto eccentrico e inedito, era stato comunque un metodo o uno strumento reso indispensabile dal fatto che a mettersi insieme erano due forze ben consapevoli delle reciproche differenze. Da qui la scelta, per molti versi forzata, di un accordo in cui ognuno fissava come prioritari gli obiettivi a cui più teneva: il reddito di cittadinanza per i grillini, quota cento e flat tax per i leghisti. Metodo discutibile e al dunque poco produttivo, ma almeno chiaro. Da cui si partì per formare il governo.
All’epoca le trattative andarono avanti per tre lunghi mesi. Oggi il Presidente della Repubblica ha giustamente dato tempi stretti ai nuovi contraenti. Ma un elenco anche minimale di obiettivi, traguardi e provvedimenti sui dossier più urgenti al Paese bisognerà quanto prima offrirlo agli italiani che osservano confusi quanto sta accadendo. Si è detto che non ci sarà un nuovo contratto dove ognuno mette il suo, ma allora ci dovrà essere una sintesi programmatica seria e articolata.
C’è poi un’altra questione. La visione che ha unito Lega e M5S, entrambi vittoriosi alle urne, è stata quella del “cambiamento” declinato in chiave generazionale e di rottura con la vecchia politica: generica quanto si vuole, ma intercettava un sentimento collettivo che col voto s’era dimostrato maggioritario. Qual è la visione dell’Italia (e della politica) che oggi unisce Pd e M5S, che fino a ieri non hanno fatto altro che dichiararsi come reciprocamente incompatibili e alternativi persino sul piano dei valori? Li unisce la convinzione di star salvando da Salvini una democrazia nella quale, come si è visto, è bastato un semplice confronto parlamentare per mandare a casa un governo che ormai non funzionava più? Essa può funzionare (e consolare) per l’abbraccio di queste prime ore. Ma per governare (e durare sino alle fine della legislatura) ci vorrà dell’altro, come ha fatto capire anche il Capo dello Stato, al quale nella giornata di oggi bisognerà portare non solo una maggioranza parlamentare, ma anche un’intesa politica e una ragionevole convergenza d’intenti. E’ dunque su giustizia e regionalismo, infrastrutture e grandi opere (a partire dalla Tav), scuola e sanità, politica industriale e lavoro, sicurezza e gestione dei flussi migratori, impegni militari all’estero e ricerca che si dovrà trovare una sintesi politica seria e fattibile. Da ieri è al lavoro un tavolo congiunto Pd-M5S proprio per ragionare sul da farsi insieme: vedremo quali indicazioni o idee ne scaturiranno.
Il M5S in realtà ha già presentato al Pd un decalogo sotto forma di “obiettivi prioritari per gli italiani”. Ma equità sociale, investimenti straordinari per il Sud, legalità, lotta alla corruzione, tutela dei beni comuni, riduzione dei tempi della giustizia, contrasto all’evasione fiscale, riforma degli enti locali, economia circolare, mobilità sostenibile e lotta al cambiamento climatico non rappresentano un programma d’azione: sono obiettivi generici - fotocopia della metà del vecchio Contratto - che lasciano il tempo che trovano se non tradotti in proposte concrete sulla base di precise priorità. Promettere l’impossibile e il vago è d’altronde la forza dei populisti quando sono in campagna elettorale e il loro tallone d’Achille quando si tratta di governare. Il fatto che ora i grillini abbiano scelto il bene (il Pd) contro il male (la Lega) non li fa magicamente guarire da questo loro vizio d’origine, che per la sinistra renzian-zingarettiana rischia in prospettiva di rivelarsi contagioso e fatale. Fatto il governo, il governo dovrà fare. Fateci capire cosa, se non è chiedere troppo.
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