Riccardo De Palo
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di Riccardo De Palo

Alberto Rollo: «Quando vidi Tabucchi scrivere tutta la notte»

Alberto Rollo
di Riccardo De Palo
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Lunedì 19 Agosto 2019, 17:31
«Mi sono rimaste tante immagini di Antonio Tabucchi. Una, apparentemente secondaria, tra tutte: ero nella sua casa di Vecchiano, vicino a Pisa, si lavorava sui testi fino a tarda ora, nel silenzio di quel piccolo villaggio così isolato. Una sera mi sentii esaurito, mi veniva meno l'attenzione; dunque lo salutai e andai a dormire. La mattina dopo, con mio grande stupore, lo ritrovai esattamente dov'era, non s'era mai mosso dalla sua scrivania. Gli dissi: Ma non ti sei neanche svestito? No, rispose, mi stavano appresso le parole».

Alberto Rollo è editor di lungo corso, per 22 anni in Feltrinelli, ora con Mondadori; è autore a sua volta; è traduttore di Jonathan Coe, Will Self, Truman Capote (sua una nuova edizione di A sangue freddo). Di autori ne ha visti tanti: «Coe è molto british, è bello passare il tempo a chiacchierare di cinema, a Chelsea o Fulham; mi è piaciuto stare ad ascoltare Alessandro Baricco, così come mi ha sempre divertito lavorare con Stefano Benni, il suo rapporto jazz con il testo; ma è anche meraviglioso stare ad ascoltare i natural born storyteller: Maurizio Maggiani sovra tutti, o Simonetta Agnello Hornby che potrebbe parlare della sua famiglia per l'eternità; così come è formidabile il lavoro di ricerca che accende storie che vengono da lontano in Benedetta Cibrario, finalista all'ultimo Strega».

L'avventura più bella?
«Un giorno passò in casa editrice il maestro Daniel Barenboim; mi parve un'occasione magnifica per costruire un libro sulla musica; e così facemmo, mattone dopo mattone, con quello che diventò La vita sveglia il tempo. Dare forma a un libro che non c'è è una delle cose più affascinanti che possano capitare».

È stata importante la musica nella sua vita?
«Nella mia casa ce n'era molta: sono cresciuto dentro il melodramma perché mio nonno era un grande appassionato del genere; in seguito, con la giovinezza, sono approdato al rock, a Bob Dylan, ai Rolling Stones, il blues che incrocia rock e country, Bruce Springsteen. E questo vagare per generi non mi ha allontanato dalla classica, da Mozart, da Mussorskij. E forse questo filtro mi ha permesso di collaborare con Barenboim, che considero tra i migliori a dirigere Wagner».

I primi grandi amori letterari?
«A 17 anni, La nausea di Sartre, perché ci avevo sentito tutta l'inquietudine esistenziale della mia generazione; più tardi La suora giovane di Arpino; le Storie ferraresi di Bassani. Poi è arrivato Faulkner, il mio scrittore preferito in assoluto».

Come ha iniziato a fare l'editor?
«Subito dopo l'università (ho studiato lettere, alla Statale di Milano) ho iniziato a lavorare con case editrici, dalle più piccole alle più grandi. Di questo mestiere mi ha sempre affascinato la possibilità di stare dentro il processo creativo, dove si inventa uno lingua, uno stile, dove la struttura agisce sulla parola».

Il primo lavoro?
«Ho cominciato nella sede milanese degli Editori Riuniti che allora erano una bellissima casa editrice, con sedi a Milano e a Roma, con Gian Carlo Ferretti che dirigeva la struttura: lì ho cominciato a mettere insieme gli strumenti, e a concepire le mie prime generose ossessioni. Fra queste ultime: agli autori che dicono di avere scritto un libro, io ripeto sempre: no, tu non hai scritto un libro. Hai scritto un romanzo, un saggio, un reportage. Noi editori facciamo i libri».

Un bel cambio di prospettiva.
«Penso che quella sia la strada. Poi ho lavorato per De Agostini, sono stato consulente per Rizzoli (sto parlando di primi anni Ottanta) sono arrivato a Feltrinelli dove sono rimasto per 22 anni (e forse più, perché ho cominciato a collaborare prima); ho diretto Baldini & Castoldi per un anno. Ora sono consulente per la narrativa di Mondadori».

Si sente più un editor alla Gordon Lish, quello di Carver, che interveniva pesantemente, o i suoi interventi sul testo sono più marginali?
«Non sono né l'uno né l'altro. Bisogna essere compagni di strada dell'autore, essere al suo fianco, stare ad ascoltare, serve complicità. L'editor deve poter dire: qui funziona, qui no; ma le redini deve tenerle l'autore e soltanto se gli cadono, allora l'editor può raccoglierle».

Gli autori stanno al gioco?
«Ho avuto un rapporto bellissimo con Maurizio Maggiani, che è sempre stato uno scrittore educato all'oralità: procedeva capitolo per capitolo. Uno come Tabucchi, invece, si presentava con l'opera compiuta e idealmente intoccabile. In realtà anche lui voleva essere ascoltato, messo in discussione».

C'è qualche libro in cui è intervenuto significativamente?
«Se anche fosse successo non glielo direi (ride, ndr)».

Segreto professionale?
«Non solo, aziendale. Queste cose non si dicono perché vengono sempre travisate; invece, lavorare sui testi vuol dire muoverli. Quindi sì, posso dire più genericamente che mi è capitato di muovere la materia narrativa, ma sempre assieme all'autore, mai da solo, presentandogli il testo già fatto. Ci sono persone che lo fanno, ma non è il modo in cui procedo io».

Come ha lavorato con autori raffinati come Baricco?
«L'editor, come dicevo, è un complice; è come se fosse un critico a cui però è stata data la possibilità di esprimere un giudizio, che serve per andare avanti nella stesura. Alessandro volle che io gli raccontassi l'opera che stava scrivendo, per fargli capire cosa avessi compreso del testo; era un passaggio che gli serviva per mettere a fuoco la narrazione. E io lo feci. Glielo raccontai. Per il lavoro di fino ho sempre collaborato con una persona meravigliosa, come Giovanna Salvia: io la chiamo la merlettaia. Il suo è un lavoro delicatissimo: Giovanna è capace di rilevare una incongruenza a 250 pagine di distanza».

Gli autori di cui è più fiero?
«Tra quelli più giovani, il regista Paolo Sorrentino, il suo romanzo Hanno tutti ragione è stata una magnifica avventura, lui ha un vero talento di scrittore; poi c'è Giuseppe Catozzella, un'altra giovane rivelazione; il Marco Missiroli di Atti osceni in luogo privato; Alessandro Mari, che con Troppo umana speranza, è stato una bellissima scoperta».

Rimpianti per qualche autore sfuggito di mano?
«Quelli buoni hanno avuto una loro fortuna e ne sono contento, anche se non li ho seguiti personalmente. Ho lottato per pubblicare Paolo Cognetti. Mi sarebbe piaciuto pubblicare Paolo Giordano».

Ora a cosa sta lavorando con Mondadori?
«Sto ultimando il lavoro con un giovane scrittore ravennate, Matteo Cavezzali, già uscito con Minimum Fax con un bellissimo romanzo su Raul Gardini, Icarus. Si tratta di un libro su un personaggio incredibile, di cui noi in Italia sappiamo pochissimo: Mario Buda, immigrato in America nel 1907. Ribattezzato negli Usa Mike Boda, fu un anarchico, autore di uno dei più efferati attentati terroristici negli anni Venti a Wall Street, con 38 morti e centinaia di feriti. Rimpatriato in circostanze misteriose, tornò a Rimini, a fare il mestiere di quando era partito, il ciabattino».

A un certo punto, poi, è diventato scrittore a sua volta. Perché?
«Ho sentito l'urgenza di fare i conti con la mia città, la mia formazione, mio padre. Ho scelto in maniera determinata un piccolo editore di Lecce, con cui ho lavorato benissimo. Un'educazione milanese è stata una bellissima avventura».
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