Riccardo De Palo
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di Riccardo De Palo

Andrea Bajani: «Io, Tabucchi e i libri che verranno»

Andrea Bajani
di Riccardo De Palo
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Domenica 28 Luglio 2019, 17:15
Andrea Bajani è un uomo dalle molte (e contemporanee) vite: scrittore ed editor raffinato, ha dedicato alla sua amicizia con Antonio Tabucchi un commosso memoir, Mi riconosci, e un'orazione funebre, al cimitero Dos Prazeres di Lisbona. Nato nel 1975, «romano adottato da Torino», come si definisce, ha vissuto a Berlino, Parigi, Amsterdam. «Il mio periodo parigino - racconta - trascorso ospite del pittore Valerio Adami, a Montmartre, è stato il più formativo in assoluto, ha lasciato il segno in quel che sono. Mi dividevo tra l'atelier di Adami, le cene da Tabucchi e camminate solitarie lungo la Senna, a tarda sera». I suoi romanzi sono tradotti dai più prestigiosi editori, negli Stati Uniti e in Europa (basti una parola: Gallimard). Autore pluripremiato con Se consideri le colpe (Premio Super Mondello, Brancati, Recanati, Lo straniero), Ogni promessa (Bagutta), La vita non è in ordine alfabetico (Settembrini). Il suo primo romanzo con Einaudi, Cordiali saluti (2005) «diede il via», ricorda, «a una straordinaria stagione di romanzi dedicati al tema del lavoro e del precariato». L'ultimo romanzo è Un bene al mondo, uscito tre anni fa. Nel 2017 ha esordito come poeta, con Promemoria; ma è anche autore teatrale; ha tradotto Il piccolo principe; ha condotto trasmissioni su Rai Radio 2.

Parallelamente a tutte queste sue attività, c'è quella di editor. Ma quante personalità ha?
«Le considero tutte articolazioni dell'essere scrittore e dell'amore viscerale per la parola in tutte le sue possibili estensioni. Se ci pensa, però, il mio è esattamente il profilo dello scrittore novecentesco. Pensi a Pavese: traduceva Melville, era editor in Einaudi, scriveva romanzi, poesie e teatro».

Come ha cominciato?
«In Einaudi ero consulente a tutto campo, partecipavo a incontri periodici con scrittori e intellettuali. Bollati Boringhieri è stato il mio vero inizio, e in fondo mi è sembrato naturale, dopo aver lavorato sulla mia scrittura per tanti anni, dedicarmi a quella degli altri. Per certi versi i miei maestri sono stati i miei editor einaudiani, anche se io ero dall'altro lato. La loro è la scuola più rigorosa. Ma per capirli davvero, ho dovuto mettermi nei loro panni».

Essere un autore aiuta a scegliere chi pubblicare?
«Diciamo che scrivere mi insegna che i limiti, le imperfezioni sono quanto di più prezioso ci è capitato in sorte. Almeno letterariamente Perché definiscono quello che chiamiamo stile, cioè la personalità di un autore».

Quando ha iniziato a capire che la letteratura sarebbe stata la sua vita?
«Lo capisco ogni volta che passo un po' di tempo senza scrivere. Comincio a girare a vuoto, inquieto. Nel 2016 sono stato un anno in una residenza per artisti a Bamberg, in Germania senza scrivere una riga decente e mi pareva di impazzire. Quando poi la scrittura torna, quando entro di nuovo in una storia, tutto prende senso. La scrittura è doping naturale per la vita, la rende interessante. Uso l'alfabeto come dopamina».

Cosa le ha dato l'esperienza con Tabucchi? Esistono, oggi, autori comparabili a lui?
«Mi ha insegnato molte cose, ma soprattutto la curiosità. Da Parigi chiamò in Einaudi perché aveva letto 
Se consideri le colpe e voleva conoscerne l'autore: questo gesto dice la grandezza di un uomo e di uno scrittore che non sta seduto sul trono del successo. Anche perché sa quanto quel trono condanni a una solitudine assoluta e impoverente. Era uno scrittore europeo, con uno sguardo più largo del perimetro dello stivale. Credo che oggi manchi questo».

Come editor, quali sono gli autori di cui è più fiero?
«Quello che mi premeva era riportare lo stile al centro della scena. Il che non significa la bella frase ma una personalità che si sente a ogni parola. Aver iniziato con il romanzo di una poetessa Mary Barbara Tolusso, L'esercizio del distacco, aveva proprio quel significato: qualsiasi sia la storia, incantateci per come la sapete raccontare. Non ho scoperto nessuno (Andrea Tarabbia è finalista al Campiello, ne vado molto fiero, ma era già grande e grosso, noi gli abbiamo dato nuova casa) ma sono contento di aver aiutato a esordire il bassaniano Francesco Longo, e di aver pubblicato il livornese Michele Cecchini, uno scrittore con un passo unico, felice, che merita molta attenzione».

Ci può anticipare quali sono gli autori che sta curando e che troveremo in libreria?
«Ci sono due esordi fulminanti: uno è di Irene Salvatori, a settembre, Non è vero che non siamo stati felici. Polonista, poetessa, expat a Berlino, ha scritto una struggente e scalmanata lettera alla madre. Poi c'è La mischia, di Valentina Maini, a inizio 2020: è un libro mondo, una specie di Ufo, una sorta di Bolaño nel corpo di una trentenne bolognese che gravita su Parigi e scrive poesie. Sempre a inizio 2020, poi, uscirà un irregolare di cui ho amato già i libri precedenti: Ade Zeno con L'incanto del pesce luna, un American Psyco sentimentale».

Qual è l'autore contemporaneo che vorrebbe tanto avere scoperto lei?
«Georgi Gospodinov. Tra gli italiani, il romanzo che più avrei voluto pubblicare è dell'appartato poeta marchigiano Adelelmo Ruggieri, si intitola Trekking. Le camminate di un agorafobico e uscirà da Italic/Pequod in autunno: è di una bellezza che toglie il fiato. Sebald e Leopardi insieme».

Qualcuno che le è scappato di mano?
«Paolo Colagrande, e il suo La vita dispari, andato poi a Einaudi. Avevo come competitor l'editore che pubblica i miei romanzi, il che è emotivamente un bel guazzabuglio. E Pierpaolo Vettori, che è rimasto a Bompiani».

Come si scoprono i talenti? Dove va a cercare nuovi autori?
«Si scoprono sempre per caso, dove non li cerchi, se non hai paura di rischiare. Altrimenti vanno bene le agenzie. Scherzo: le agenzie fanno un lavoro indispensabile ma non è l'unico canale».

Quali sono le regole che uno scrittore esordiente che vuole inviarle un manoscritto dovrebbe tenere sempre a mente?
«Che se può fare a meno di scrivere, se la scrittura in lui o in lei non è mossa da necessità assoluta, può evitare di farlo».

Di suo cosa sta scrivendo?
«Un libro di poesia, uscirà nella Bianca di Einaudi nel 2020. Per il romanzo, a cui lavoro indefessamente, ci sarà da aspettare ancora qualche anno. Ho passato anni a pubblicare molto, ora voglio stare più in silenzio, covare più a lungo i miei romanzi».

Quando lavora, si isola dal mondo?
«Sono un po' un samurai, come scrittore. Credo nella disciplina, nel silenzio e nella sveglia molto presto. Il resto è rumore di fondo».

Cosa ha trovato nel palcoscenico?
«Soprattutto il sollievo e la bellezza del lavoro di squadra. 
Ricordo ancora il lavoro che fece Giuseppe Battiston su un mio testo, Diciottomila giorni: rimasi senza fiato a vederlo diventare un corpo che si muove nello spazio».

Ha una passione che non sia la letteratura?
«Gli esseri umani. Primi in assoluto. A volte un incontro di un minuto, inaspettato, mi lascia più di cento libri letti».
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