Da quando è al governo, è forse questo il momento più difficile per il Movimento Cinque Stelle. I compromessi rispetto alla propria identità e tradizione barricadera sembrano - per fortuna - non contarsi più: dal “mandato zero” all’Ilva, alla Tap, senza ovviamente dimenticare il voto favorevole all’immunità di Salvini al culmine delle intemerate giustizialiste della vigilia.
Ma è sul fronte dell’Alta Velocità che, soprattutto a livello simbolico, il Movimento rischia davvero il colpo letale rispetto ai proclami pre e post elettorali. Dopo anni di battaglie sulle barricate e in trincea, il sì del premier Conte all’opera (concordato con un gioco della parti con il vice premier) segnerebbe di fatto la fine del “partito dei no”. Sia ben chiaro: ogni grande opera pubblica e ogni modifica e consumo del territorio devono comportare dei benefici superiori ai costi e migliorare la qualità della vita di molte persone, incluse le generazioni future. Da tempo sosteniamo che la Tav - dovunque allocata - rispetti tutte queste caratteristiche, al contrario del Movimento Cinque Stelle. E allora cosa dovrebbe fare il vice premier Di Maio in questa situazione? La minaccia di votare contro al proprio governo è irrealistica e poco credibile. E comunque un’arma spuntata ( la maggioranza per l’opera in Parlamento c’è) che al momento ha il valore di un calmante alla base inferocita. Un pentastellato della prima ora forse gradirebbe delle dimissioni di massa, a partire proprio dal vicepremier. E invece, e qui torniamo alle sconfitte che diventano vittorie, forse è il caso che Di Maio - folgorato sulla via di Damasco - colga l’occasione. E allora perché non usare questo malvoluto sì alla Tav, alla connessione veloce tra est e ovest d’Italia e d’Europa, per richiamare la necessita di maggiori infrastrutture nel Sud del Paese? In fin dei conti, che cosa ha infatti ottenuto il Sud in questo anno di governo? Pochissimo, se pensiamo a quanto il movimento debba la sua vittoria dell’anno scorso proprio al Meridione. Può bastare il reddito di cittadinanza? Certo che no: perché l’idea stessa del reddito è che debba essere misura di politica attiva del lavoro e non una misura passiva e assistenziale. E per continuare a essere finanziato ed erogato è necessario che si creino le condizioni per cui i beneficiari possano verosimilmente trovare un’occupazione. E allora, di nuovo, perché non sacrificare il tradizionale no alla Tav per ottenere adeguati e strategici investimenti anche al Sud? Se il Cristo di Carlo Levi si era fermato a Eboli, lo stesso è avvenuto fino ad oggi con l’alta velocità (Salerno).
Si parta pure da dove si vuole: dai necessari ammodernamenti, sviluppo e messa in sicurezza delle linee regionali o dal vero e proprio disegno di nuove linee veloci per avvicinare il Mezzogiorno del paese all’Europa, con tutto ciò che di positivo questo può comportare in termini di trasporto merci e turistico. Ormai il treno ha soppiantato l’aereo negli spostamenti tra Roma e Milano: perché non può accadere anche per il Sud? O ci si è rassegnati a dare a questa area del Paese minori diritti di cittadinanza? Questo è l’unico modo di ribaltare la pericolosa deriva dell’autonomia differenziata che oggi rischia di spaccare l’Italia.
Le regole della politica sono invisibili e complicate, come quelle degli scacchi. Le tecniche di difesa e gli arrocchi servono solo a prendere tempo, ma non fanno vincere le partite. Quando di mezzo poi c’è un Paese e non una semplice scacchiera, l’attendismo e i no creano povertà, disoccupazione e assistenzialismo. I tempi e i modi per vincere la partita Di Maio ancora ce li ha: tramutare un vecchio no che divide in un sì che unisce il Paese sarebbe davvero la vittoria di tutti.
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