Giulio Sapelli

L’incognita di Johnson e le illusioni della Brexit

di Giulio Sapelli
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Martedì 23 Luglio 2019, 00:00
Oggi il Regno Unito è la quinta nazione al mondo per volume di scambi, con un valore pro capite delle esportazioni superiore a quello degli Stati Uniti e del Giappone. I principali beni di importazione sono generi alimentari, legno e prodotti cartacei, macchinari, prodotti chimici e mezzi di trasporto. Nonostante quanto si afferma, sostenendo che l’ economia britannica - che ha indubbiamente come suo centro nevralgico la piazza finanziaria londinese - sia dominata dai servizi finanziari e dai servizi all’industria, nelle esportazioni spiccano i macchinari, i mezzi di trasporto, i manufatti di base, il petrolio, i prodotti chimici, gli strumenti di precisione, le attrezzature aerospaziali ed elettroniche. 

Le esportazioni ammontano a circa 350 mila milioni di dollari Usa e le importazioni a circa 460 mila milioni di dollari. Il 50% circa degli scambi avviene con i Paesi dell’Unione Europea, soprattutto con Germania, Paesi Bassi e Francia e solo il 13% circa con Stati Uniti e Canada, con dati assai inferiori con le nazioni appartenenti al Commonwealth. 

È in questo contesto del commercio mondiale che il Regno Unito sta attraversando la  crisi politica e costituzionale più profonda da un secolo a questa parte. Sappiamo che la ragione immediata della crisi è il risultato del referendum del giugno 2016 sulla permanenza nell’Unione Europea.

Quando, con un margine ristretto, la maggioranza assoluta degli elettori ha votato per il “Leave”, ossia per il distacco dall’ Unione Europea, a cui aderiva nel 1976, pur senza aver mai avuto la tentazione di lasciare la sterlina per l’ euro. Si è trattato, tuttavia, di uno strappo che ad alcuni è parso inaudito e che ha scatenato una ridda di spiegazioni sociologiche e politologico di grande interesse, unitamente a quella sequela di imprecisioni e di attacchi isterici e volgari rivolti a coloro che non condividono le opinioni prevalenti, come è ormai proprio della decadenza civile in cui siamo immersi.

Esortazioni in senso contrario provenivano e provengono dai principali partiti politici, dalla comunità imprenditoriale, e financo dai principali alleati di Londra e dai protagonisti delle numerose organizzazioni internazionali che oggi caratterizzano in modo sempre crescente i rapporti interstatali con la crescente disgregazione degli Stati razional- legali tradizionalmente intesi. E di cui l’Unione Europea è una delle massime espressioni.

Il voto ha diviso il Regno Unito lungo linee di faglia generazionali, educative e regionali. Delle quattro nazioni costitutive, la Scozia e l’Irlanda del Nord hanno votato a favore del “Remain”, ( ossia il rimanere nella Ue), mentre Inghilterra e Galles si sono espresse per il “Leave”. La Brexit ha di fatto significato, con la vittoria di un elettorato trasversale politicamente, ma invece ben definito socialmente ( le classi alte e urbane hanno votato “Remain”, le classi basse e disperse nelle campagne urbanizzate e deindustrializzate per il “Leave”).

Si è trattato della inusitata riscoperta di un “nazionalismo imperiale” che per molti è la sola via per scongiurare la dissoluzione del Regno Unito. Dissoluzione, tuttavia, che proprio la Brexit rischia di far inverare con il rafforzato autonomismo scozzese e l’intricata questione del confine irlandese, che le altre nazioni della Ue non hanno fatto nulla per superare. Da ciò è sorto un movimento culturale e politico dai confini mutevoli e incerti che oggi denominiamo “ritorno all’ Anglosfera”, ossia al rapporto geopolitico tra Usa, Uk e tutte le nazioni storicamente facenti parte del Commonwealth, tra cui spiccano Canada e Australia.

Le relazioni economiche sono ininfluenti per spiegare quanto è successo: questa è la mia tesi. Nel 2015 gli scambi commerciali tra Uk, Usa, Canada e Australia hanno rappresentato il 9,5% delle importazioni e il 16,2% dell’export del Regno Unito. E con gli Usa, non lo si ricorda mai, non è mai esistito un accordo commerciale.

Si è trattato, dunque, di un terremoto eminentemente politico e culturale che l’economia non spiega affatto, confutando ogni concezione materialistica della storia. Del resto, i sistemi politici di tutti i principali Paesi europei sono sbandati, disfunzionali, incapaci di raccordare interesse nazionale, sintonia con il popolo, manovra parlamentare: la loro crisi era già la premessa delle acrobazie che si sono viste al Parlamento di Strasburgo nel caso della elezione risicata di Ursula von der Leyen. Ciò che è successo con la disgregazione di fatto del sistema politico inglese, che ha colpito soprattutto i Tories, la tradizione inglese per eccellenza, capiterà tra non molto anche in Germania. Dove lo sfibrante tramonto di Angela Merkel alimenta il declino della Cdu e la perdita del ruolo – detenuto dalla fondazione della Repubblica Federale – di partito-perno del sistema. 

È successo in Italia, in Francia e in Spagna, in un’Europa che, con la Brexit, è ormai priva di quella dimensione oceanica essenziale per esercitare un ruolo geopolitico pari al suo peso economico, unitamente all’arma atomica, essenziale per svolgere un ruolo geopolitico mondiale (e quella francese è insufficiente, da sola). L’Europa: gigante economico e nano politico. Oggi la Brexit rende questa sua dimensione drammatica quanto mai, dinanzi all’aggressività cinese e al neo- revisionismo internazionale nord americano, oscillante tra neo- isolazionismo e neo- bilateralismo (con la Russia) che pare, quest’ultimo, purtroppo ancora lontano.

Dalla bottiglia faustiana di questi avvenimenti è balzata fuori la figura di Boris Johnson. Mutando repentinamente le sue opinioni(sino al 2016 era tra i paladini del “Remain”) si oppone a tutta la maggioranza del partito conservatore e diviene il porta parola ufficiale della Brexit ad ogni costo, anche senza accordo commerciale con la Ue. Dopo le dimissioni di Theresa May, sfibrata dai lunghi negoziati con l’Ue e dalle disfide a cui è stata sottoposta da un parlamento inglese frantumato e divorato dalla lotta fratricida tra gruppi sempre più autoreferenziali, Boris Johnson diviene il paladino della Brexit “dura e pura”. La sua nomina alla testa del partito conservatore e a Primo ministro è ormai certa. 

Il suo programma immediato? Non attendere oltre il 31 ottobre 2019 per lasciare a tutti i costi la Ue e non pagare le cosiddette fatture della Brexit, ossia quei 40-46 miliardi di euro che il Regno Unito dovrà versare alla Ue se non si raggiungeranno accordi di sorta: pacta sunt servanda. Veramente troppo poco per il destino della nazione che ha fondato il sistema di libertà in cui ancora oggi viviamo.
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