Lampi
di Riccardo De Palo

Giovanni Ricciardi: «Nel mio nuovo giallo, vi svelo i misteri della Storia»

Giovanni Ricciardi
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Lunedì 22 Luglio 2019, 20:40 - Ultimo aggiornamento: 23 Luglio, 15:24
«Ogni cold case, ogni inchiesta che scavi nel passato, è a suo modo un romanzo storico». Giovanni Ricciardi risponde al telefono dal fresco della Meseta castigliana, a settecento metri d'altitudine, per parlare del suo nuovo libro, La vendetta di Oreste, la nona indagine del commissario Ottavio Ponzetti.

Nel vasto Pantheon dei detective regionali italiani, il suo è uno dei pochi che vive e opera a Roma, non le pare strano?
«Sì, molto. Ponzetti deve qualcosa al mitico commissario Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda, ma nel panorama del giallo contemporaneo è forse l'unico che indaga in un campo d'azione così vasto e interessante».

Qualcuno ha definito il suo protagonista un Montalbano romano. 
«La definizione è di Marco Lodoli; ma Ponzetti si discosta molto dal personaggio del grande e compianto Camilleri: paragonarmi a lui mi sembrerebbe un po' presuntuoso. Ponzetti è un po' ispirato a Maigret, perché la mia conoscenza del giallo e della sua struttura nasce dalla lettura assidua dei libri di Georges Simenon».

Il suo è un personaggio molto particolare: tutti i familiari partecipano attivamente alle indagini.
«La caratteristica di Ponzetti, che lo rende originale nel panorama dei commissari italiani, è proprio di avere una famiglia che s'interessa delle sue inchieste: sempre più spesso, nei miei libri, uno dei componenti o anche tutti insieme, partecipano alla soluzione del caso».

In questo, la figlia...
«Sì, la minore, Maria, che a un certo punto decide di partire per risolvere uno degli aspetti dell'indagine e darà effettivamente una grossa mano al commissario».

Ponzetti ricorda anche Kostas Charitos, un personaggio di Markaris.
«Sì, perché anche lui coinvolge spesso la famiglia nelle sue vicende e usa la prima persona, per raccontare le sue indagini, nell'Atene di oggi».

Come in ogni suo romanzo, c'è un quartiere romano protagonista, in questo caso quello giuliano-dalmata. Come mai questa scelta?
«A Roma pochissimi lo conoscono, o sanno perché si chiami così. Questo quartiere era, in origine, soltanto un lungo capannone al di fuori del centro abitato, dove vivevano gli operai che costruirono l'Eur. Abbandonata dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, nel 47 questa zona fu occupata da un gruppo di esuli giuliano-dalmati. Da lì è cominciata la mia ricerca, che ha portato a questo romanzo».

Infatti il suo libro è un ibrido, un giallo che indaga a ritroso, attraverso la ricerca storica.
«A un certo punto volevo scrivere davvero un romanzo storico e non un nuovo libro della serie di Ponzetti; poi mi sono reso conto che ogni cold case, in qualche modo, lo è; e quindi ho combinato il giallo con l'approfondimento storico su una vicenda poco nota, quella degli esuli istriani»

Come mai questa scelta?
«Io stesso, pur avendo studiato abbastanza, sono professore di lettere (al liceo Albertelli dell'Esquilino, ndr), ne sapevo molto poco. Anche perché è un tema molto controverso e scottante di cui non è stato facile parlare, almeno fino agli anni Novanta. Per l'Italia la perdita dell'Istria era una questione scottante, legata a temi ideologici».

L'indagine parte da due oggetti ritrovati: una lettera e una pistola.
«Nel mio libro Marco Zarotti ritrova i due oggetti, appartenuti al padre Oreste, in una cassaforte segreta nella casa dei genitori, profughi istriani. Naturalmente, quest'uomo, ormai adulto, si pone mille interrogativi su chi sia stato veramente suo padre, e su quali segreti possa avere celato. Ponzetti, che nel romanzo è un amico di vecchia data del defunto, viene interpellato per confrontarsi con la storia da cui Oreste proviene».

Nel libro c'è molto romanesco: il dialetto è un po' il tratto distintivo di molti dei gialli italiani di oggi.
«Camilleri ha scritto interi romanzi in un siciliano un po' edulcorato per renderlo leggibile, ma la caratterizzazione regionale del giallo è ormai un fenomeno e acclarato: pensi ai gialli di Maurizio De Giovanni, dove il napoletano - anche lì un po' limato - è abbastanza presente. Nei miei libri c'è soprattutto un personaggio, l'ispettore Iannotta, collaboratore fisso di Ponzetti nelle sue vicende, che parla spiccatamente romanesco».

È come uno di famiglia, Ponzetti se lo ritrova in casa continuamente.
«Sì è un suo amico, anche se Iannotta non ha mai superato lo scoglio dell'inferiorità di grado e quindi continua ostinatamente a dargli del lei».

Nel romanzo ci sono almeno tre piani narrativi: quello storico, quello dell'indagine, e quello mitico simbolico, che rimanda alla mitologia greca.
«Sono un professore di greco e latino e Oreste non è certo un nome casuale, perché ricorda un personaggio di una famosissima trilogia tragica di Eschilo, che uccide la madre Clitennestra per vendicare la morte di suo padre, Agamennone. Nella scena finale dell'Orestea, viene giudicato e il tribunale decide di spezzare la catena di sangue, perché questa non continui all'infinito. È un tema universale, che ho deciso di affrontare nel mio giallo».

E c'è anche il ritorno di Ulisse a Itaca...
«In fondo tutta la letteratura è fatta di archetipi. La storia di una popolazione costretta ad abbandonare la propria terra per cercarne un'altra, non poteva non richiamare la vicenda di Ulisse, evocata proprio da una famosa poesia di Saba che cito nel libro: Nella mia giovinezza ho navigato lungo le coste dalmate...».

Scriverà mai un romanzo non di genere?
«È il mio sogno: qui ci sono andato un po' vicino ma ho preferito mantenermi equidistante, conservare la struttura più rassicurante del giallo. Per fare il salto c'è ancora tempo».
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