Pupi Avati e “Il Signor Diavolo: «Noi lo abbiamo subito in modo violento, ci volevano rovinare»

Pupi Avati sul set de Il signor Diavolo
di Paolo Travisi
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Lunedì 22 Luglio 2019, 21:00 - Ultimo aggiornamento: 21:33

Anni Cinquanta, Italia del Nord. Morti sospette e presenze inquietanti spingono il Ministero della Giustizia ad inviare nelle campagne emiliane, un ispettore, alla ricerca della verità. Due ragazzini sono morti in situazioni che ipotizzano la presenza del Male: il diavolo. Pupi Avati, ritorna alle origini della sua filmografia, trasformando il suo romanzo, Il signor Diavolo, in un film le cui location ed atmosfere fanno pensare al suo film di culto, La casa dalle finestre che ridono.
 

 


Il regista bolognese, dopo una pausa dedicata alla fiction televisiva, ritorna al genere, quell’horror che lui definisce “gotico padano” e che nei decenni delle sue regie, tra drammi e commedie, è tornato a frequentare, come fosse un’esigenza artistica. E non si può non guardare alle origini, senza quel cast, che Pupi Avati ha scelto in molti dei suoi film: Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Massimo Bonetti, che ne Il Signor Diavolo si prestano a ruoli piccoli, ma essenziali per costruire quel senso di verità e quella tensione crescente per tutta la durata del film.
 




A loro si aggiungono due esordienti. Il 13enne Filippo Franchini, interpreta Carlo, il ragazzino che viene accusato dell’omicidio di un suo coetaneo, Emilio (Lorenzo Salvatori), diverso nell’aspetto e per questo ritenuto, dalla società contadina una presenza del demonio. Accusato a sua volta della morte di Paolino, amico del protagonista, morto di un male incurabile e del padre del protagonista. Questa serie di morti, spinge i funzionari di Roma ad inviare un ispettore, interpretato da Gabriele Del Giudice (al debutto al cinema) per fare chiarezza, prima che la storia arrivi nelle aule del tribunale.

“E’ una storia che mi appartiene profondamente, avevo 14 anni ero un chierichetto in una chiesa in Emilia e temi come il cattolicesimo superstizioso, la favola contadina, la paura atavica del buio, li conosco bene, ci sono cresciuto. Ho cercato di raccontare quello che so della vita, se non racconti il passato come fai a parlare del presente, e l’ho fatto attraverso il genere che i registi non praticano più”.

Per il regista, l’ultimo periodo non è stato facile, per sua stessa ammissione, soprattutto perché in Italia il cinema di genere è guardato con sospetto. “Ho ricevuto sei no dai distributori, prima di arrivare a Rai Cinema, perché le distribuzioni non vogliono il genere, ma solo la commedia e con la solita panchina ristretta di attori. Fare un film come questo e portarlo in sala è anche una forma di provocazione. Il più grande autore di film di genere, Sergio Leone, abitava a Trastevere, quando il cinema italiano ha abbandonato il genere, abbiamo perso una parte importante” sottolinea Avati che spiega il motivo per cui ha scelto di raccontare il male, come protagonista de Il signor diavolo, titolo di un suo romanzo omonimo.

“Il diavolo è il male. Noi abbiamo fatto conquiste in tutti i campi, ma lì ci siamo fermati, gli abbiamo permesso di sopravvivere. Io stesso mi sono trovato a godere del male, di situazioni in cui altri sono caduti professionalmente. Diventando anziano, in questo viaggio di ritorno c’è un avvicinamento fortissimo a quel bambino che ero stato, alla mia infanzia. Vecchi e bambini sono cosi vicini, comunicano così tanto, perché condividono la vulnerabilità, piangono e ridono con maggiore facilità. Potenzialmente il bene ed il male, nella parte iniziale della vita, convivono”.


Poi il regista, parla di fatti più personali, legati alla sua esperienza di regista, e di suo fratello produttore Antonio Avati, che hanno messo in difficoltà gli ultimi anni delle loro lunghe carriere. “Il male per il male lo abbiamo subito in modo violentissimo, ma non farò nomi e cognomi. Una persona ha voluto la nostra rovina, ed è quasi riuscita a non farci fare più film, a non avere più la possibilità di ottenere finanziamenti”, ammette con rabbia il regista.

A smorzare i toni, il commovente intervento di Lino Capolicchio, il protagonista de La casa dalle finestre che ridono, che qui interpreta un sacerdote, intricato nella torbida vicenda, messo a tacere da una ricca signora di Venezia, Chiara Caselli, madre del ragazzo tormentato dalle malelingue: “Tornare con Pupi mi riporta molto indietro, l’ultimo giorno eravamo a Comacchio, mi mise una mano sulla spalla e mi disse sono passati 40 anni dalla Casa delle finestre che ridono. Quando ho girato Il Signor Diavolo, ero malato ma non lo sapevo, ho visto la morte in faccia, ma grazie a Dio sono guarito completamente, sono sopravvissuto. Il cinema è una finzione, con Pupi c’è stato un matrimonio artistico, abbiamo fatto 9 film insieme, mentre la vita ti sottopone a delle prove durissime. Devo molto a Pupi”.

A chi gli chiede se e come il male sia entrato nel film, il regista non ha dubbi. “E’ entrato in modo subdolo, chi ha letto il mio romanzo sa che il finale non era questo che vedrete al cineme.
Abbiamo girato un altro finale, che non era previsto dalla sceneggiatura, e che nessuno conosceva nella troupe”. D'altronde tra i film che hanno ispirato Il Signor Diavolo, Pupi Avati, non ha paura di citare quel capolavoro horror di Roman Polanski, Rosemary's Baby. Ma dopo l'uscita del film (il 22 agosto) i fratelli Avati sono pronti a cimentarsi con un progetto ancora più ambizioso: la biografia di Dante Alighieri.

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