Paolo Balduzzi
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Emigrano i migliori/ La fuga dei giovani che affossa il Paese

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 18 Luglio 2019, 00:00
Troppo impegnati a discutere di quanti stranieri possano entrare o meno nel nostro Paese, i nostri politici non si accorgono che un altro dramma, dal punto di vista economico naturalmente, riguarda anche i cittadini italiani che da questo Paese se ne vanno. Non è certo un caso se, ancora una volta, è la voce “tecnica” del ministro dell’Economia a evidenziare il fenomeno. 

Parlando alla Luiss, Giovanni Tria ha quantificato in circa 14 miliardi il costo annuale per il nostro Paese a causa della cosiddetta fuga dei cervelli, una bruttissima ma diffusa espressione che ha almeno il merito di farci capire che si parla di un fenomeno che riguarda in modo speciale le persone con un elevato titolo di studio. Si tratta di una cifra elevatissima, pari quasi all’1% di Pil e, per quanto effettivamente difficile da calcolare, confermata da studi passati di Confindustria.

Da dove si origina questa stima? Innanzitutto ci sono i costi per far studiare le persone che poi decidono di trasferirsi all’estero. L’istruzione pubblica in Italia è sostanzialmente gratuita. Lo è totalmente fino alle scuole superiori e lo è parzialmente all’università, dove comunque l’eventuale integrazione delle famiglie, tramite tasse universitarie, è spesso solo una piccola parte del costo sostenuto dalla collettività.

Inoltre, individui con una elevata istruzione possono potenzialmente guadagnare redditi superiori alla media: se questi redditi vengono guadagnati all’estero, ove si ha la residenza, anche le conseguenti imposte (sui redditi, naturalmente, ma anche le numerose e spesso meno trasparenti imposte sui consumi) sono perdute dall’erario italiano.

Per non parlare delle enormi esternalità, difficilmente quantificabili e naturalmente negative. Tra tutte, vale la pena di ricordarne due. La prima: l’Italia è già ora tra gli ultimi posti in Europa per la quota di popolazione laureata sul totale. Perdere i giovani più istruiti significa aggravare questo dato, con tutte le ripercussioni sulla produttività e sulla capacità di innovare e di fare ricerca di questo Paese.

Per esempio, nel 2018 ben 35 ricercatori italiani, secondi solo a quelli tedeschi, hanno ottenuto finanziamenti dal Consiglio europeo per la ricerca (fondi Erc). Tuttavia, solo un terzo di questi lavora in una università italiana. La seconda: che siano istruiti o meno, l’emigrazione delle giovani generazioni, dalla nazione più vecchia d’Europa e tra le più vecchie del mondo, rende le prospettive di sostenibilità delle finanze pubbliche di questo Paese drammatiche. 

Chi potrà mai continuare a finanziare un welfare state già oggi particolarmente squilibrato a favore delle generazioni più anziane (sanità e pensioni) se i lavoratori in futuro saranno sempre di meno? Del resto, quando mancano l’ottimismo, la fiducia e le condizioni per una crescita personale ed economica, cercare una via d’uscita sembra una scelta naturale. Bastano i seppur generosi sconti fiscali, reiterati da questo governo, a invertire questa tendenza? Purtroppo la risposta è negativa. 

Il tentativo, già in vigore dal lontano 2010 con la legge “Controesodo”, non ha dato i risultati sperati. Da un lato, si è osservato che tendono a tornare maggiormente i lavoratori dipendenti, quindi persone che occupano un posto di lavoro, rispetto agli imprenditori, cioè persone che creano posti di lavoro e che sarebbero ben più utili, soprattutto nel nostro meridione. Dall’altro, una volta esauriti gli sconti, i più bravi possono benissimo tornare a guadagnare molto all’estero come facevano prima. 

Infine, vale la pena di sottolinearlo, tali sconti creano un forte problema di equità nei confronti di coloro che, ugualmente abili e produttivi, avevano deciso di investire sul proprio Paese. Il fenomeno di questa migrazione non è certo nato oggi, è una tendenza ormai decennale che si è aggravata con la crisi del 2009-2013. La responsabilità di questo Governo non è quindi quella di aver creato il fenomeno quanto quello di, apparentemente, non capirne le ragioni. Perché le risposte siano efficaci, devono essere articolate, non esaurirsi a semplici benefici fiscali, e costruite sulle ragioni che portano questi giovani a lasciare il Paese. 

Insieme ad Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica, ho affrontato questo tema in numerose ricerche. Innanzitutto, nel Rapporto giovani del 2016 è emerso come ben il 90% dei giovani italiani considera l’emigrazione una vera e propria «necessità per realizzarsi completamente», a differenza di altri giovani europei per cui l’emigrazione è solo un’opportunità come le altre. Questo disagio emerge anche da altre nostre ricerche per l’Associazione ITalents, per cui i giovani italiani andrebbero all’estero perché si aspettano che lì sia più garantita la meritocrazia. Per quanto il termine possa risultare ambiguo e discutibile, i nostri tentativi di misurarla, insieme al Forum per la meritocrazia, hanno infine evidenziato come in effetti l’Italia sia il Paese meno meritocratico in Europa.
Andare all’estero per studiare, lavorare, scoprire culture diverse, confrontarsi è una attività da incentivare e non certo da contrastare. Il problema è quando tutto ciò non è più frutto di una scelta libera ma di una scelta obbligata. Per ridare fiducia a queste generazioni, il Paese andrebbe davvero risvoltato come un calzino. Questo Governo aveva promesso di farlo; ma come purtroppo capita troppo spesso con chi promette grossi cambiamenti, nulla davvero mai succede. 

Invece di chiudersi al mondo, bisogna aprirsi e creare le condizioni perché il nostro Paese sia attrattivo anche per i giovani stranieri, non solo per quelli italiani. Inoltre, bisogna eliminare tutte le barriere all’ingresso che impediscono alle giovani generazioni di assumersi le proprie responsabilità. E che vengono interpretate come meccanismi di selezione per cooptazione e non basati sul per merito. La politica, in altri termini, non deve avere paura di investire, scegliere, crescere. Esattamente ciò che molti giovani italiani, oggi in fuga, vorrebbero continuare a fare nel loro Paese d’origine.
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