Alessandro Campi
Alessandro Campi

Dove va la Lega/ Le conseguenze della strambata filo-americana

di Alessandro Campi
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Mercoledì 19 Giugno 2019, 00:21
Nei primi giorni del gennaio 1947 Alcide De Gasperi, all’epoca a capo di un governo che comprendeva socialisti e comunisti, fece uno storico viaggio negli Stati Uniti guidati da Truman. Fu una settimana di incontri e colloqui che lo cambiarono personalmente (come confidò a Nenni al suo ritorno).

Ma che soprattutto cambiarono, forse per sempre, la politica italiana (e in parte anche europea). Dopo quasi cinque mesi di lacerazioni e crisi con gli alleati sarebbe nato un nuovo esecutivo (il quarto guidato da De Gasperi) composto solo da democristiani, socialdemocratici, liberali e repubblicani. Nel mondo era iniziata la guerra fredda, in Italia iniziava la lunga stagione del centrismo.

I paragoni storici rischiano di essere ingannevoli. Ma talvolta possono anche essere istruttivi, o almeno suggestivi. Al netto delle ironie sulla distanza abissale che corre tra De Gasperi e Salvini, perché non pensare che tra gli effetti politici del viaggio che quest’ultimo ha appena fatto a Washington possano anche esserci la fine del contratto-alleanza tra grillini e leghisti e, stando ai rumors che si rincorrono nei palazzi romani del potere, nuove elezioni subito dopo le vacanze estive? 

A De Gasperi, in cambio di aiuti economici e di amicizia politica, fu suggerito di sospendere la propria collaborazione con le sinistre troppo legate a Mosca. Al capo leghista qualcuno potrebbe aver chiesto di lasciare al suo destino un partito, il M5S, che per amici sembra essersi scelto in modo scientifico i nemici dichiarati di Trump: dalla Cina al Venezuela. Un esito persino ironico se si pensa alle aperture di credito di cui i grillini, nella prima fase della loro ascesa, avevano goduto in pezzi importanti dell’establishment statunitense. 

Proprio con la Cina (ai cui progetti di espansione geopolitica ed economica il premier Conte ha ribadito di guardare con attenzione e simpatia esattamente nelle ore in cui Salvini si trovava a Washington) è chiaramente iniziata da un pezzo una nuova guerra fredda, condotta dagli Stati Uniti sul terreno tecnologico-commerciale attraverso lo strumento legale delle sanzioni che unilateralmente essi riescono ad imporre sfruttando il fatto che il dollaro è la principale valuta per le transazioni finanziarie su scala globale. Anche stavolta, come settant’anni fa, alla Casa Bianca vogliono capire chi condivide la loro battaglia e chi invece civetta con il campo avverso, anche solo con la scusa di voler difendere i propri interessi nazionali. Nella lotta per l’egemonia condotta dalle grandi potenze la neutralità o equidistanza degli attori minori è purtroppo un esercizio impraticabile, che nella migliore delle ipotesi rischia di essere scambiato per una forma di ambiguo equilibrismo. Bisogna sempre scegliere da che parte stare sapendo che una delle parti è fatalmente quella sbagliata.

Una scelta di campo che Salvini – dopo gli ondeggiamenti filo-putinisti del recente passato, che già sembrano dimenticati come la secessione o il celtismo un tempo predicati dalla Lega bossiana – ha operato nel suo viaggio con un entusiasmo persino eccessivo, arrivando a smentire pubblicamente su ogni singolo tema le posizioni del M5S in politica estera e dichiarando l’America di Trump il proprio punto di riferimento politico-ideologico. Dal suo punto di vista, il sostegno politico venuto dall’amministrazione americana, reso evidente dal rango protocollare che gli è stato accordato nei diversi appuntamenti in calendario, ha rappresentato un indubbio successo. Non potendo contare su grandi ancoraggi o sostegni in Europa, dove anzi lo si guarda con sospetto e malcelato fastidio, il leader leghista li ha obbligatoriamente cercati e ottenuti oltreoceano. 

Ma la sua è stata una vittoria politico-mediatica sull’immediato che in prospettiva potrebbe però nascondere un pericolo del quale conviene essere consapevoli: quello di essere blanditi da Washington non per ragioni di vicinanza ideologica, quanto per motivi opportunistici e strumentali. Il rischio in altre parole è di venire utilizzati in chiave anti-europea. Laddove il problema di Trump non è tanto quello di contrastare l’egemonia franco-tedesca favorendo la nascita di un polo alternativo che potrebbe avere proprio l’Italia come riferimento, come Salvini ha ingenuamente sostenuto, quanto giocare sui contrasti interni all’Unione nella prospettiva del suo progressivo indebolimento. Il motto “America first” non indica solo il ritrovato protagonismo delle nazioni sovrane nel riflusso delle speranze (spesso illusorie) prodotte dalla globalizzazione. Esso si porta dietro, tra le altre cose, anche una visione geopolitica che considera il blocco politico ed economico-industriale rappresentato dall’Unione europea un competitore diretto più che un alleato strategico. Senza contare che la sfida del “secolo asiatico” gli Stati Uniti a guida trumpiana hanno deciso di affrontarla da soli, forti della rete di alleanze che detengono in quella parte di mondo divenuta così strategica per gli equilibri mondiali e per i loro stessi interessi. In questa visione, all’Europa resterebbe in carico la gestione dei secolari contrasti religiosi e degli endemici conflitti armati dell’area del Mediterraneo, mentre gli Stati Uniti hanno scelto di giocare in quella del Pacifico tutte le grandi partite del futuro: dalla gestione dei traffici commerciali all’innovazione tecnologica.

Il rischio insomma è di essere perdine inconsapevoli di un gioco giocato da altri. Dal quale, oltre il guadagno politico e d’immagine di Salvini, si vorrebbe capire quale guadagno (anche piccolo) ne venga all’Italia. Il confronto sul debito pubblico e sulla potenziale procedura d’infrazione l’abbiano con Bruxelles – e Washington certo non potrà venirci in soccorso. La mediazione sulle future cariche dell’Unione europea dovremo farla anch’essa con gli altri Stati europei, senza l’aiuto di Trump. Così come le sanzioni americane, quelle contro la Russia o contro l’Iran, danneggiano l’economia italiana esattamente come danneggiano quella europea, a meno di non illudersi che possano esserci concesse esenzioni che però anche altri Stati potrebbero contrattare unilateralmente con gli Stati Uniti.

Per chiudere come abbiamo cominciato, l’occasione del viaggio di De Gasperi era un forum a Cleveland intitolato “Che cosa si aspetta il mondo dagli Stati Uniti?”. Ecco, non aspettiamoci, per ingenuità o eccesso di fiducia in sé stessi, quello che gli Stati Uniti non daranno mai. Attenzione soprattutto a non scambiare una pacca sulle spalle per una offerta d’alleanza o una richiesta amichevole per un consiglio disinteressato. Un errore che i politici italiani hanno spesso commesso. È la volta di Salvini?
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